Neneh Cherry è sempre stata una fuoriclasse. Dai tempi di “Buffalo Stance”, quando incinta di sette mesi cantava in tv con la sua street attitude (la buffalo stance appunto, braccia incrociate come i rapper). Era finita a Londra diciottenne portandosi un po’ di cultura hip hop da New York, dove è cresciuta con la madre e il patrigno Don Cherry, musicista jazz. Ha continuato a esserlo quando, nel 2011, è rispuntata fuori collaborando con gli scandinavi The Thing, il trio free jazz-noise con cui ha pubblicato l’album “The Cherry Thing”. Dopo 18 anni dal suo ultimo lavoro da solista (“Man”, 1996), è tornata ora con “Blank Project”.
Se è vero che dopo la ribellione giovanile si torna alle radici, eccoci, è questo il caso. In quest’album c’è molto di quel jazz respirato in casa ma anche tanto post rock, com’era inevitabile visto che la produzione è firmata Four Tet, una garanzia nella sperimentazione elettronica innovativa. Ma le radici, oltre a essere il punto di arrivo di questo momento artistico di Neneh, sono anche il punto di partenza di “Blank Project”, scritto dopo la scomparsa della madre della cantante – Moki Cherry, pittrice svedese – circa quattro anni fa.
Sono stati anni intensi per Neneh, è lei stessa a parlarne di frequente nelle interviste, confessando quanto il percorso di elaborazione del lutto sia stato faticoso, e la fase di sbandamento da perdita dei riferimenti personali totalizzante. La violenza di questa rottura passa senza filtri da questo lavoro. Tra l’altro se la sua gestazione è stata lunga, al contrario la registrazione è durata solo cinque giorni, a conferma di quanto le cose avessero davvero urgenza di uscire fuori una volta focalizzate. E la pressione si sente infatti, negli arrangiamenti quasi tribali, nei testi crudi dove i sentimenti sono grovigli in cui si rimane intrappolati e se non sono urlati, strisciano.
“Across the water” in apertura va diritta al punto: Since our mother’s gone It always seems to rain. Per queste canzoni si entra in una specie di girone infernale popolato da serpenti, dai fantasmi e dalle scimmie della dipendenza di “Spit three times” (Monkeys on my back holding me down, Black dogs in the corner looking at me), dalla distanza, come in “422” (And we’re never close, Thoughts that curl up your toes). L’unica concessione a un po’ di leggerezza la troviamo in “Out of the black” in coppia con Robyn, il pezzo più “commerciale” dell’album.
Insomma, un po’ inquietati dalla voce rotta e dalle risate isteriche che si insinuano nel ritmo incalzante di queste canzoni viene da pensare che forse Neneh abbia calcato la mano parecchio in “Blank Project”. Ma sicuramente non ha esagerato, anzi, da vera fuoriclasse ha saputo misurare perfettamente fino a che punto tendere la corda.