Il successo non è una colpa. Ripetiamo insieme: il successo non è una colpa. “Turn Blue” è l’ottavo album dei Black Keys, nel linguaggio stereotipato del giornalismo musicale si dice da tempo “attesissimo”, nel linguaggio delle conversazioni al bar si dirà invece: “fottutamente buono”.
Il singolo “Fever” l’avete già ascoltato anche in fila al supermercato, in radio non ne parliamo, più spesso che le previsioni del tempo. Ipnotico e appiccicoso ““ com’è delle grandi hit ““ faceva però temere il peggio: synth invasivi, beat un po’ disco, ma questi non sono i Broken Bells, mannaggia a Brian Burton (aka Danger Mouse, che produce i Black Keys e interviene quasi come un terzo membro)? Video geniale, sia detto: Dan Auerbach-predicatore televisivo, anni ’70, il disturbo sullo schermo, i fratelli Coen (non ci sono, eh, ma questa è roba da loro), il numero che lampeggia in sovra-impressione, le occhiaie e varie tonalità di ocra. Cinematografici, giustissimi.
Il problema per molti è che i Black Keys non sono più una questione privata da anni. “The Big Come Up” (2002) era blues-rock puro e duro, registrato in maniera rozza e rudimentale come si addice agli album nati nei seminterrati dal talento auto-didatta di ragazzotti con il mito dei Troggs e Junior Kimbrough; arrivati a “Brothers” (2008) e “El Camino” (2011) le interferenze pop avevano già mitigato le tracce e attirato le folle. Eccolo, il successo (che non è una colpa). E le voci stridule dei detrattori: mercificati!, commerciali!, “prostituite la vostra musica” li accusarono in una puntata del Colbert Report del 2011.
Eppure, alla faccia della commercializzazione, “Turn Blue” si apre con i 6 minuti e 50 [sei-minuti-e-cinquanta] di “Weight of love”, di cui quasi 2 minuti di intro e 2 di outro in cui Auerbach si lancia in un assolo da jam session che sembra dire piuttosto: non vi devo niente, continuo quanto voglio. Straordinario, ma non esattamente per le masse. Eppure, alla faccia della mercificazione, quest’ultimo album ha spesso un sapore più amaro dei precedenti ““ in mezzo al rock’n’roll scanzonato, c’è il divorzio di Auerbach, i tentativi di suicidio della moglie davanti alla figlia, l’accusa di aver appiccato il fuoco alla loro casa ““ vedi “il peso dell’amore”, “un proiettile nel cervello, preferisco rimanere lo stesso”, “forse non sai che potrebbe esserci l’inferno là sotto”, capite adesso?
E poi, piaceranno anche a tutti, ma l’eredità raccolta da Dan Auerbach e Patrick Corney è sempre quella nobilissima della più alta tradizione del rock. Rispolverate lo scaffale dei classici in vinile, secondo ordine alfabetico: A di Animals (“It’s Up to You Now), B di Jeff Beck, E di Eagles (“Bullet in the Brain”), P di Pink Floyd (“In Our Prime”), S di Sly & The Family Stone (“In Time”), Y di Neil Young. Non hanno certamente inventato un linguaggio nuovo i Black Keys, ma hanno resuscitato una lingua morta e ne hanno fatto una lingua corrente, e direi che non è cosa da poco.
La musica-puttana dei Black Keys forse disturba i puristi, i conservatori gelosi della propria donna e della propria band indie-rock, ma seduce tutti gli altri: “Turn blue” è un bar per camionisti e spogliarelliste sul Mississipi River che è poco raccomandabile frequentare ma dove alla fine vai sempre a bere, è ambiguo e lunatico, una femme fatale irresistibile. E solo i bigotti non ci passerebbero almeno una notte insieme.
Photo: ultra 5280 from Denver, USA, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons