Con un nome così, per me hanno già vinto. Potrebbero anche non registrare un nuovo disco. Io mi ci fisso, con i nomi delle band. Potrebbe essere un verso di Shakespeare riutillizzato poi da Maràas come titolo di un suo romanzo. E invece no, non c’è il Bardo dietro i dolori dell’essere puri di cuore: pare che il nome della band newyorkese fosse il titolo di un mai pubblicato racconto per bambini.
La cosa sorprendente è che questo nome, in cui riverberano anche echi morrisseyani, aderisce come un guanto alla loro musica.
“Days of Abandon” è il terzo album dei TPOBPAH. Il primo disco era quasi un omaggio allo shoegaze di marca My Bloody Valentine e Jesus & Mary Chain. Con il secondo album, invece, la band newyorkese cercava un sentiero personale, un suono più morbido e meno spigoloso. Il risultato pieno e maturo di questa ricerca arriva con “Days of Abandon”, album a cui ha lavorato il solo Kip Berman, unico rimasto della formazione originaria insieme al batterista Kurt Feldman. Il suono vira decisamente verso un pop che non disdegna archi e fiati, senza rinunciare però a quell’elettricità che ha contraddistinto la band sin dagli esordi.
Se si passa dai territori del pop, non si può non rendere omaggio all’altare dei divini Smiths (sempre siano lodati), coloro che hanno reso la canzone dal ritornello catchy e (in apparenza) spensierato una forma d’arte in cui sublimare i dolori dell’essere puri di cuore, il perfetto contenitore per animi tormentati e ipersensibili come quelli di Morrissey e di Berman.
Ma non è degli Smiths che voglio parlarvi adesso (anche se la tentazione è forte). Il fatto è che i TPOBPAH hanno le canzoni giuste, esplorano tutte le sfumature, gli stati d’animo, hanno trovato una loro formula pop che rende ogni pezzo rotondo e liscio, sempre diverso pur avendo una forma simile, senza rinunciare a quella densità di suoni che aveva caratterizzato i primi due dischi.
Art smock è una ballata delicata, con la voce di Berman che diventa un sussurro dolce e malinconico.
“Simple and sure”, “Kelly” e “Masokissed” sono palesemente (e felicemente) influenzate dagli Smiths.
“Beautiful you” è un inno malinconico, il dolore di un giovane cuore puro e incompleto, con un finale in cui il rumore diventa una meraviglia maneggiata con grazie e maturità .
Le conseguenze di un abbandono sono di nuovo al centro in “Coral and old”: Kip sussurra di nuovo, le chitarre esplodono cristalline al raggiungimento del climax emotivo.
Dopo gli Arcade Fire, anche i TPOBPAH cantano il mito di Euridice: in “Eurydice” è Orfeo che canta il suo dolore (Eurydice, I never stop losing you) per la perdita dell’amata, in un confronto serrato con quello che fa più male, ovvero l’assenza, che si rispecchia per contrasto in una sezione ritmica serrata che satura l’intero pezzo.
“Masokissed” e “Simple And Sure” sono palesemente (e felicemente) influenzate dagli Smiths.
“Until The Sun Explodes” reca residui shoegaze che fanno venire in mente i Jesus & Mary Chain.
“Life After Life” è impreziosita dalla voce dell’ex A Sunny Day in Glasgow Jen Gonna (protagonista in Kelly e nei cori del resto del disco) e dai fiati che danno un respiro epico alla canzone, incentrata di nuovo su un abbandono, vero leitmotif dell’album.
“The Asp In My Chest” è delicata e lieve e chiude il cerchio di un album privo di sbavature.
Ho fatto ascoltare il disco alla mia ragazza e il miglior aggettivo per descriverlo l’ha trovato lei: “respiroso”. I TPOBPAH hanno spalancato le finestre e hanno lasciato che l’aria gonfiasse la loro musica.