Luis Ramiro Barragán Morfàn è stato uno dei più importanti architetti del ventesimo secolo. Ha attraversato il Novecento ridefinendo il concetto di spazio attraverso l’uso di elementi minimi e semplici, muri lisci e tagliati, dipinti con tinte accese e intense, l’uso dell’acqua e della luce per inserire l’idea di movimento laddove regnerebbero la staticità e l’assenza di vita. A torto, almeno secondo il sottoscritto (che non è minimamente qualificato per discettare di architettura, e, anzi, ne approfitta per chiedere scusa a tutti gli architetti e, in special modo, al padre), Barragán è annoverato tra i minimalisti.
Chiamare un disco come un architetto può sembrare una bizzarria. Durante un soggiorno a Città del Messico, Kazu Makino visita una delle case di Barragán e ne rimane colpita, ma il vero motivo della scelta di questo nome pare essere un altro: desiderava una parola che fosse divertente da pronunciare e che avesse un bel suono, al di là di un significato preciso, come dichiarato da Amedeo Pace in un intervista apparsa sul Mucchio di settembre. Prendiamo per buona questa precisazione, ma questa scelta non può essere stata dettata semplicemente dal caso o dalla volontà di una parola che suonasse bene (oppure sì, e allora questa recensione non ha senso, ma andiamo comunque avanti).
C’è una certa affinità tra l’archittetura di Luis Ramiro Barragán Morfàn e l’ultimo album dei Blonde Redhead. Il trio newyorkese formato da Kazu Makino e i gemelli Amedeo e Simone Pace ha fatto del continuo rinnovamento la sua caratteristica principale, forse il segreto della sua longevità (si sono formati nel 1993). Il noise degli esordi è solo un ricordo, lo shoegaze e il dream pop della svolta anni zero si sono evoluti grazie a un approccio che mira a sfoltire i suoni per raggiungere l’essenzialità . E qui entra in gioco Barragán: le canzoni del nono disco dei Blonde Redhead sono come le case progettate dall’architetto messicano, spazi sonori puliti, superfici a tinte accese su cui la luce guizza senza incontrare ostacoli. Il lavoro di sottrazione e pulizia viene apprezzato solo dopo il primo ascolto: la mancanza di immediatezza (quell’immediatezza miracolosa dei primi album, abrasiva e rumorosa) potrebbe essere un punto debole e, contemporaneamente, un punto di forza. Ci sono pezzi come “Dripping” (non a caso scelto, insieme a “No More Honey”, per far salire l’hype attorno al disco durante l’estate) in cui l’essenzialità dei suoni è perfetta: le vibrazioni del basso, così pulite e facilmente distinguibili, non fanno altro che aumentare la sensualità di una canzone che ha i colori e la luce di Casa Gilardi di Luis Barragán. Una sensualità diversa rispetto a un pezzo come 23, tutto urgenza e suoni stratificati e delay impazienti: i Blonde Redhead di “Barragán” rallentano, giocano con i pieni e con i vuoti, lavorano con il cesello e il risultato è elegante e oscuramente seducente. Il trio newyorkese attraversa territori folk nella title track strumentale che apre l’album, in “Lady M” e in “Mind to Be Had”: ogni elemento è dosato con perizia affinchè si esalti reciprocamente nell’intreccio con la voce di Kazu Makino, capace di raggiungere vette di inquietante bellezza. Un discorso a parte merita “Defeatist Anthem (Harry and I)”: inizia cristallina come la Fuente de los Amantes di Barragán, per virare poi dopo quasi tre minuti verso lidi sperimentali venati di oscurità e incubi, in cui un suono pizzicato simile a quello di un marranzano incede zoppicante su un tappeto ritmico caldo e incalzante arricchito da suoni sintetici. “Penultimo” è un bignamino che tutte le band dovrebbero consultare prima di lanciarsi in un duetto. Il disco si chiude con “Seven Two”, con la voce di Kazu appoggiata a una melodia crepuscolare dal sapore nordico (gli echi e i riverberi non possono non richiamare alla memoria i Sigur Rós).
Piccola nota a margine: a distanza di sei giorni da “Barragán” è uscito “El Pintor” degli Interpol. Tra questi due dischi ci sono delle affinità che balzano subito agli occhi: delle mani in copertina e la scelta di un titolo in spagnolo. Affinità solo superficiali, però, visto che l’anima dei due dischi è profondamente opposta: sperimentazione, per quanto riguarda i Blonde Redhead; un rassicurante ritorno al suono che li aveva resi celebri, da parte degli Interpol. Due dischi come due abitazioni, con effetti differenti: se “El Pintor” è come ritornare, dopo un periodo di lontananza, nella casa in cui si è cresciuti, riconoscendo istantaneamente gli odori e le cose e un ambiente familiare, evocatore di ricordi piacevoli, con “Barragán” si entra in una casa nuova, con arredamenti moderni e scarni, nessuna traccia di una vita precedente, la virginale freddezza delle stanze, per cui il primo impatto sarà straniante e ci vorranno alcuni ascolti prima di non sentire lo spazio come estraneo e riconoscerlo, invece, come un’estensione del proprio corpo.