La grandezza degli Alt-j è la grandezza degli accadimenti casuali. Si dice serendipity, la fortuna o abilità di fare scoperte grandiose quando meno te lo aspetti, mentre vagavi alla ricerca di altro. Come Colombo scoprì l’America cercando l’India, come Fleming arrivò alla penicillina per distrazione, quelle storie lì. Non si sa bene dove fossero diretti gli Alt-J mentre studiavano arte e letteratura a Leeds e tenevano basso e batteria leggeri leggeri per non fare troppo rumore negli alloggi universitari e per cinque anni componevano pezzi così-tanto-per, senza nemmeno programmare di suonarli in pubblico. Non si sa bene cosa stessero cercando Gwil, Joe, Thom e Gus ma con l’esordio “An Awesome Wave” hanno trovato le loro Americhe musicali e, nel 2012, un Mercury Awards tutto britannico.
Quando all’inizio di quest’anno il “leader silenzioso” Gwil Sainsbury (basso/chitarra) ha deciso che tutto questo questo era un po’ troppo e se n’è tirato fuori pacificamente pochi giorni prima di cominciare a lavorare sul nuovo album, gli Alt-J navigavano a vista, incerti di riuscire a rimettere insieme i pezzi. Dietro le nebbie c’era “This Is All Yours”. Possiamo dirlo, si sono salvati dal naufragio.
Il secondo lavoro degli Alt-j è un album poliglotta, parla lingue musicali antiche mai state così moderne. I cori ancestrali di “Intro” rievocano una qualche religiosità pagana ma culminano in una climax percussiva arabeggiante e lussuosa non distante dai Dead Can Dance. “Arrival in Nara” apre il trittico non consecutivo dedicato alla città giapponese dove i cervi corrono liberi nei parchi del centro e a condurci lì è una una melodia alla Yann Tiersen; uno dei momenti più inaspettati dell’album insieme all’interludio di solo flauto “Garden of England”, proveniente da qualche angolo di Albione medievale. “This Is All Yours” è una navigazione nel tempo e nello spazio: “questo è tutto tuo”, ce l’avevano detto. Afferra la pienezza dei colori, aggrappati alla meraviglia.
Il vero miracolo musicale di “This Is All Yours” è stato replicare l’equilibrio fra sperimentalismo e appeal commerciale che era già di “An Awesome Wave”: è vero, la voce femminile in “Hunger of the Pines” è di Miley Cyrus, loro grande fan; certo,”Left Hand Free” è una marchetta classic rock richiesta dall’etichetta americana che voleva un singolone e di recente hanno dichiarato di averla composta in venti minuti: “piacerà a qualche camionista con l’adesivo Ci siamo liberati di Bin Laden sul furgone”, così la rinnegano. Forse è un album più accomodante del precedente. E allora? Se tutto questo convive con una “Bloodflood pt.II” che ancora una volta non è altro che un fiotto di sangue caldo al cuore, o da quelle parti lì, l’analisi tecnica è una sola: brividi.
Non sappiamo cosa stessero cercando gli Alt-J quando hanno scoperto le loro Americhe musicali. Non sappiamo dove siano adesso e dove siano diretti. Forse, dopo queste tredici tracce, geograficamente non sappiamo più dove siamo neppure noi. Però, ho la certezza che sia, esattamente, dove vogliamo essere.