“Rapsodia satanica” è la colonna sonora che i Giardini di Mirò hanno scritto per l’omonimo film muto di Nino Oxilia, datato 1917. è anche, per andare dritti al sodo, uno dei dischi migliori che la band di Cavriago abbia prodotto in circa 15 anni di attività . Non è facile accostarsi a un genere così particolare senza snobismi o noiose riletture filologiche, ma loro l’avevano già fatto nel 2009 per “Il fuoco”, riuscito esperimento di contaminazione col cinema futurista. Ugualmente i timori che fosse rischioso cimentarsi nuovamente con una materia simile erano presenti e legittimi.
I dubbi sono evaporati già al primo ascolto, intorno al primo accordo di chitarra: inconfondibile sound GDM e insieme misterioso come un incipit di Morricone. Anche senza il supporto delle immagini per cui questi pezzi sono stati scritti, è facile farsi catturare. Più che in passato il riferimento principe sono gli Explosions in the Sky e le chitarre elettriche fanno da fondamenta a tutte le tracce, ma c’è molto di più: l’armonica in “III” (sono solo numeri romani a identificare i pezzi), il mandolino arabeggiante in “VII”, il pianoforte tenue in “XIII” al quale si aggiunge un giro ipnotico di violino, la tromba strozzata del primo minuto di “XVII” che fa da preludio al climax dell’intera “rapsodia”: l’ingresso inatteso di una drum machine, un basso in sedicesimi che potrebbe appartenere agli Xx e le chitarre di Nuccini e Reverberi che cantano melodie che non ti togli più di dosso. Se tradizionalmente il post-rock vive di esplosioni di volumi, di muri sonori, qui il colpo da KO non ha bisogno neanche di alzare più di tanto i decibel. In “XXI” restano ancora 7 minuti di riverberi cupi e voci spettrali, che ricordano da vicino le recenti sperimentazioni di Jukka Reverberi insieme a Max Collini.
C’è chiaramente un altro livello di lettura per “Rapsodia satanica” ed è quello di come la musica si accosta alle immagini e ne segue i movimenti. Se rispetto alla precedente sonorizzazione de “Il fuoco” questo disco vive più di vita propria, ricordando il lavoro dei British Sea Power per la colonna sonora del documentario “From the Sea to the Land Beyond”, l’attenzione dei Giardini di Mirò per l’incastro perfetto con il ritmo delle immagini è maniacale. Le diverse atmosfere musicali che si susseguono coincidono con quelle cinematografiche, imitandone l’alternanza di toni differenti, interni ed esterni, luci ed ombre. Di più, l’abbinamento è talmente stretto che riascoltando il disco la mente finisce per associare i suoni alle scene del film. Il pianoforte in “XIII” si sovrappone a Lyda Borelli che nel grande salone si siede alla tastiera. Gli archi sono la voce della passione della protagonista con Tristano mentre al di là della finestra suo fratello Sergio minaccia di suicidarsi. Nelle ultime due tracce la scrittura della band osa ancora di più e non si limita a seguire ma aggiunge attivamente caratteristiche ai personaggi, ne descrive come una voce fuori campo gli stati d’animo. L’incedere new wave in “XVII” diventa microfono in presa diretta del cuore di Alba che torna a palpitare d’amore; nel finale (“XXI”) gli echi angoscianti dei synth rallentano i gesti della protagonista mentre sparge fiori sul pavimento. Il valore che la musica aggiunge al film risulta ancora maggiore che nella partitura originale di Pietro Mascagni, o perlomeno aiuta a colmare il secolo che ci separa da quelle immagini e a percepirne più facilmente i contenuti universali.
Perdonatemi se concludo con una nota personale: questa è la prima volta che ascolto un album dei Giardini mentre vivo all’estero, e le cose buone che arrivano dall’Italia hanno sempre un sapore speciale. Ma che quando si tratta di gastronomia nessuno ci tenga testa è una banalità : non lo è il fatto che nel 2014 il più originale e raffinato post-rock d’Europa possa arrivare dalla pianura padana. Se ho ancora fiducia nel nostro paese è anche un po’ merito di questa piccola, straordinaria band.