I Weezer nascono in California nel 1992 ed iniziano la loro attività nel 1994, festeggiano quindi i 20 anni di carriera con l’uscita di questo “Everything Will Be Alright in the End”. Sono passati in questo ventennio 7 milioni di dischi venduti e 4 anni dall’ultimo LP, “Hurley”.
“Back to the shack” parte subito con chitarre decise e taglienti, una ritmica secca e potente su cui si inserisce Rivers Cuomo con la sua voce melodiosa. Il ritmo gradevole ed armonioso chiarisce subito perchè è stato il primo singolo estratto da questo album. “Eulogy for a rock band” richiama immediatamente la produzione di Ric Ocasek, i suoni virano decisamente in modalità The Cars. Suono pulito e luccicante, chitarre aguzze e piatti metallici, nella seguente “Lonely girl” aumenta anche la pressione data dalle pelli percosse con vigore, e dopo avere superato la metà si inseriscono anche bei riff di chitarra solista ad impreziosire il tutto. Un’altra possibile hit-radio. Più pensata e malinconica la quarta traccia, “I’ve had it up to here” porta un velo di tristezza, che pervade anche “The British are coming”, la voce cantilenante e melodiosa, arrotondata sulle estreme, crea un’atmosfera soffusa fatta di ombre scolpite su una ritmica sempre presente. “Da Vinci” è una marcetta, sembra quasi una canzone per bambini, poi si riscatta nella seconda parte arricchendosi anche di backvocals. Sono i rullanti di Wilson ad irrompere con forza in “Go away”, alla voce di Cuomo si unisce quella di Bethany Cosentino per una serie di giochi a due voci che ne fanno una traccia facile, ma di sicuro impatto.
Il secondo estratto dall’album è “Cleopatra”, il vocalist è l’attore principale della canzone, con la chitarra solista a prendersi grandi spazi, il basso è dirompente, anche il synth si impone con fraseggi prolungati all’interno della traccia, la batteria sempre presente con forza, sicuramente una buona scelta come singolo. “Foolish Father” si presenta con toni decisamente più scuri e rockeggianti, la voce di Rivers si arrochisce, la chitarra si sporca quel tanto che basta, la ritmica è più cupa, brano affascinante. “The Futurescope Trilogy” è una suite d’altri tempi, quasi completamente strumentale a parte dei cori che si inframezzano nella trama musicale, suono dalle tinte prog più che alternative, un piacevole cambio di colore improvviso e benvenuto. Chiude l’album “Ain’t got nobody”, pezzo che richiama i lavori precedenti alla produzione Ocasek, suoni decisi e netti, voce arrotondata, batteria in primo piano con pelli battute con violenza a creare un rombo sordo su cui i infilano le chitarre, forse uno dei momenti più alti del cd.
Il passaggio della band dal precedente “Hurley”, uscito su Epitaph, la leggendaria label fondata da Brett Gurewitz, chitarrista dei Bad Religion alla produzione di Ric Ocasek (The Cars) si sente tutto. Il suono è più squillante, per certi versi più facile da assimilare e da lanciare, dopo alcuni passaggi non felicissimi forse è proprio il tentativo di riconquistare il palcoscenico ad avere indirizzato la band verso nuove strade. La band ha definito questo nuovo lavoro come simile a “Blue album” nella struttura, ma un po’ più spontaneo come “Pinkerton”; il tutto con una produzione più ruvida, “meno da pop contemporaneo”, rispetto ai due dischi precedenti. Oltre i due singoli estratti ci sono un altro paio di pezzi richiamati che si staccano, un buon prodotto che merita il tempo passato ad ascoltarlo.