Gli Splatterpink nascono nel 1990 dal cantante e bassista Diego D’Agata (o D’Anatra), attualmente anche frontman dei Testadeporcu. Il loro primo demo, “One”, registrato qualche mese dopo ed auto-distribuito rigorosamente in cassetta C30, permette una diffusione maggiore della band che acquista un sempre maggior interesse da parte del pubblico. Nel 1994 la band autoproduce in una tiratura di 1000 copie il primo album, “Industrie Jazzcore”. Segue “Nutrimi” nel 1996, lavoro più claustrofobico e oscuro del precedente, il successo li proietta alla Biennale dei giovani Artisti di Torino. Segue un lungo periodo di pausa, in quanto dal 1999 si sono dedicati ad altri progetti, ora si ripresentano con questo “Mongoflashmob”.
La prima traccia “Uwe boll limericks Trips”, citazioni e ritmi sordi e forsennati si alternano consecutivamente creando uno strano effetto domino. “Dolan Aproevd” è pervasa dall’urlo primordiale che incita a Non credere a Walt Disney, una traccia alienante ed ipnotica. Segue la rabbiosa “Leccaculo”, un atto di accusa verso l’arrivismo, chitarre distorte e risonanti sono l’infernale colonna sonora che fa da scenario. “Mortal Jodel” e “Voi due”, sono due brevi trait d’union, di cui il secondo strumentale, che ci accompagnano alla sesta traccia. Ascoltiamo la tangibile acidità tetra di “Terratron”, una sequenza di chitarra tagliente e battiti ficcanti che confluiscono nel settimo brano “Sting”, una rovente ed infernale corsa tra suoni e urla, battiti e colpi, veloce ed incandescente. La titletrack “Mongoflashmob” è una via affollata di una grande città nell’ora di punta, suoni suburbani e terrificanti si mescolano sovrapponendosi e creando una trama forte e precisa. Il nono brano “Che fine ha fatto Dwight Schultz” è fatto di pezzi sonori destrutturati e riassemblati assieme come in puzzle, un collage distorto e confuso che si collega alla strumentale traccia che chiude l’album, “Autocit.”, una sorda ballata jazzata fatta di stop & go e che si chiude con un coro finale.
Un album di un genere particolare, una forma anarchica di jazz dove i suoni vengono destrutturati per ottenere un effetto destabilizzante cui i testi, altrettanto particolari, concorrono in maniera evidenti qualora presenti. La bravura dei musicisti si mescola nell’assemblare un prodotto che non risulta sempre appieno convincente, ma probabilmente il risultato va visto nell’ottica di una precisa volontà di sperimentare e di attrarre ascoltatori ad una maggiore attenzione verso il suono ottenuto.