Arrivati a dicembre, la classifica è d’obbligo per ogni appassionato che si rispetti. E, come ho già  scritto da altre parti in maniera assai più colorita e un po’ meno ortodossa, è piuttosto inutile ritrovarsi ad ascoltare quintali di dischi negli ultimi venti giorni dell’anno solo per constatarne la validità ; insomma, per vedere quanto siano meritevoli della nostra preziosa decina.
La cosa migliore da fare, la più onesta, sarà  quella di affidarsi al cuore, anche se le tentazioni sono sempre numerose, poichè internet e media assortiti ci sbattono davanti centinaia di uscite all’apparenza irrinunciabili.
Malgrado tutto, i nostri dischi dell’anno saranno sempre quelli che ci siamo portati dietro; senza dubbio i migliori per noi, non necessariamente i più belli: quelli che, con le loro canzoni, ci sono stati accanto in questi faticosissimi dodici mesi.
Anche a questo giro, la giusta miscela di testa, cuore e sana obiettività  è ciò che meglio si addice a quello che in fondo è un gioco abbastanza divertente; nonchè un modo per confrontarsi, smerdare i gusti altrui e scambiarsi due o tre pareri.
Dunque buona lettura, buon anno e buona musica a tutti.

#10) GIOVANNI SUCCI
Lampi per macachi

[Wallace Records/Santeria]

Un altro disco italiano? Sì.
Un disco di cover? Yes.
Ma tutte di Paolo Conte? Ebbene sì, amici miei.

I dischi di cover, tolte le felici eccezioni, che in effetti non sono poi così poche, mi hanno sempre un po’ rotto le palle. E quando è un italiano a farne uscire uno, il mio livello di guardia sale in modo vertiginoso: i pregiudizi aumentano, il cuore piange, l’apparato verticale s’ingrossa, mentre la testa lamenta l’inflazione di uscite musicali inutili.
Ma eccoti Giovanni Succi. Appena leggo il nome ho già  un piccolo sussulto: adoro i Bachi da Pietra, la sua voce, il suo stile chitarristico. Succi canta Paolo Conte: impossibile non essere quanto meno curiosi. Mi metto all’ascolto: un pezzo (“Un gelato al limon”) e ho già  ordinato il vinile. Mentre scrivo non m’è ancora arrivato, ma nel frattempo continuo ad ascoltare “Lampi per macachi”: la voglia di sentirmi gli altri sette pezzi è tantissima, una voglia colmata e ripagata da queste straordinarie trasfigurazioni al sapor di catrame.

Giovanni Succi non risuona e ricanta le canzoni dell’Avvocato; lui le riscrive, nel vero senso della parola. Tremate, fan integerrimi del cantautore astigiano: ascolterete per la prima volta alcune delle vostre canzoni preferite, smontate e poi ricomposte in un fumo d’elettricità  fuso a timbriche acustiche ed echi elettronici. Brani traditi nella loro forma, nella veste sonora, un po’ sussurrati, un po’ cantati e declamati dalla voce dei Bachi, che qui non rinuncia alle sue atmosfere notturne e alle sue influenze maggiori, ossia Lanegan e in misura minore Tom Waits.
Solo per coloro che morirebbero senza questa sporca vita.

#9) RYAN ADAMS
Ryan Adams

[Pax-Am]

Ed ecco uno che non troppo tempo fa era caduto nella trappola della quantità , attanagliato dal demone del prolifico, di quelli che fanno un disco al mese e dopo un po’ non riesci a seguirli più. Va bene, lui non era proprio su questi livelli (John Frusciante, tipo?), ma ci si avvicinava; in più, stava a dir poco tradendo i suoi fantastici esordi, Whiskeytown inclusi, con dischi non proprio eccelsi. Nel 2014, rieccolo in carreggiata: nessuna svolta, nessun capolavoro vero, anche perchè non ce ne potrebbe fregar di meno.

Soltanto un buon disco composto da ottime canzoni, alcune di esse non inferiori ad alcune perle alle quali Ryan Adams ci aveva abituati. Produzione scarna, melodia, pochi accordi e tanto, tanto cuore.

#8) EDDA
Stavolta come mi ammazzerai?

[Niegazowana]

Potrei riciclare le frasi già  scritte per Sinigallia, cavandomela quindi con una riga e mezzo scarsa, facendo magari la felicità  dei miei venticinque lettori. Ma non lo farò.
Edda merita un bel discorso – o quanto meno un discorso che possa dirsi tale – relativo al suo terzo disco, accattivante e provocatorio sin dal titolo, le cui parole circondano una foto di copertina che ritrae la giovane madre dell’autore assieme a lui e ai fratelli, tutti ancora piccoli.

“Stavolta come mi ammazzerai” è la sua sfuriata punk, il suo grido che distrugge, ammazza e al contempo ama la sua famiglia e i suoi affetti. Canzoni spietate, sempre nude, come il suo esordio in solitaria ci ricordava; brani essenziali, brevi, secchi e qua e là  dissonanti, che entrano sotto pelle piano piano. L’ascolto è difficile, poco accomodante, come la vera Arte sa essere: Stefano Rampoldi è infatti un Artista. Per lui, questa parola fin troppo stuprata la possiamo usare. Lo si può anche detestare o considerare ridicolo, per via della sua voce sconsiderata e sgraziata che sa essere però infinitamente umana, tanto bella da fare anche molto male.
Ascoltare Edda vuol dire proprio lasciarsi ferire; in questo caso, anche lasciarsi ammazzare.

#7) CLOUD NOTHINGS
Here And Nowhere Else

[Carpack Records/Mom + Pop]
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In una galassia lontana lontana, c’era una cosa chiamata Rock ‘n roll.
Una cosa un po’ vecchia dalle mie parti, ma che di sicuro piacerà  ai vostri figli.
Ho visto il futuro del Rock: si chiamano Cloud Nothings.

Solo tremila persone comprarono il disco dei Cloud Nothings, ma ognuna di loro formò una band, tranne un tizio che fu assunto al Monte dei Paschi.
Che bello, potrei starci mezza giornata a scrivere tutto tramite inflazionatissime citazioni.
Ma la pianterò qui, cercando di cavarne fuori una marchetta degna del Mollicone nazionale: si chiamano Cloud Nothings, sono bravi, giovani, hanno voglia di suonare, scrivono grandi canzoni, le chitarre spaccano. Tutto spacca. Vincenzo non avrà  mai usato il verbo “spaccare” in questo senso, ma per questo gruppo lo scomoderebbe volentieri pure lui.
Giunti alla terza prova in studio (quarta, se si conta il disco autoprodotto e realizzato dal solo leader), i ragazzi danno una ulteriore prova di bravura, dimostrandosi una vera macchina da guerra. Incassano e portano a casa quello che considero, a titolo del tutto personale, il disco Rock dell’anno.

#6) GRUFF RHYS
American Interior

[Turnstile]

Nel corso degli ultimi mesi, mi son posto più volte la seguente questione: Ma ‘sto disco se lo sarà  ascoltato qualcuno? Me lo sarò forse sognato?. Alla prima domanda, rispondo con un “no” secco e deciso: il disco esiste, e si trova qui vicino al mio computer. Sì, perchè l’ho comprato. Però ne ho sentito parlare troppo poco, così come ho sempre percepito come un gruppo sottovalutato i gallesi Super Furry Animals, tra i più originali e alieni della scena british.

Anche Gruff Rhys, loro leader e principale autore, non poteva essere da meno nel confrontarsi con una carriera solista già  di tutto rispetto, giunta al quarto disco con “American Interior”, un concept dedicato all’esploratore John Evans, che alla fine del Settecento si fiondò nel Nuovo Mondo alla ricerca di una tribù di nativi che parlasse una particolare lingua d’origine gaelica. Che casino quando non c’era internet, eh?

Anyway, questo Evans e il nostro amico musicista se la sono intesa bene. Più che altro, è stato il secondo a innamorarsi del primo, dedicandogli anche un libro e un documentario, nonchè questa ottima serie di canzoni allucinate e cazzone, che sanno essere malinconicamente amare. Una elementare forma di poesia che prende il folk, la ballata e il brit-pop e li spalma di psichedelia mettendoci qualche beat, facendosi influenzare non poco da un certo Elvis Costello.
Non l’avete ascoltato? Fatelo subito. O dopo domani, andrà  benissimo lo stesso.

#5) D’ANGELO AND THE VANGUARDS
Black Messiah

[RCA]
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Anche questo l’ho già  scritto altrove, ma repetita iuvant, come si suol dire: il nuovo disco di D’Angelo era a un passo dal diventare il “Chinese Democracy” della musica Black. E forse già  lo era diventato. Il fatto è che abbiamo pazientato quasi tre lustri per avere un degno successore del capolavoro “Voodoo”: il tanto agognato seguito annunciato e poi rimandato, il cui buco veniva tappato dal disco dal vivo di turno.

L’attesa è stata finalmente ripagata. Se “Chinese Democracy” fu solo un terribile album di Vasco Rossi cantato da Axl Rose, “Black Messiah” tiene fede a un titolo che non può non far pensare all’immenso Isaac Hayes, che col suo “Black Moses” è senza dubbio tra le principali fonti d’ispirazione di D’Angelo, che qui centra tutti i bersagli possibili, colpi di funky, soul, rhytm & blues, suggestioni hip-hop; bassi sinuosi, fiati e voci Nere che s’intrecciano facendo gridare al miracolo.
Finalmente, signori, abbiamo (ri)visto la luce.

#4) DAMON ALBARN
Everyday Robots

[Warner/XL]
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Caro Damon, l’ho sempre detto: se fossi donna o se fossi gay, davvero mi ti farei. Fa pure rima.
Non solo perchè sei sempre più bono, ma perchè mi pare che tu riesca ad essere pure sempre più bravo. è difficile crescere come te, impossibile invecchiare come te, come solo un buon Sassicaia sa fare; tu sei sempre impegnato in cinquantamila progetti e nonostante ciò ce la fai ad avere anche qualcosa da dire. Io non lo so come cazzo fai, ma anche questo “Everyday Robots” è stato una specie di fulmine a ciel sereno: il disco solista che aspettavo da te, che non somiglia affatto al disco dei Blur che sogno da una decina d’anni.

Ormai tu e Coxon fate a gara a chi fa musica più ganza, e forse a noi umili ascoltatori ci va anche meglio così; a maggior ragione, dopo aver potuto godere di qualche vostro concerto con la storica sigla (parlo per me, perchè negli anni Novanta e nei primi Duemila ero ancora piccoletto).
Insomma, non si poteva chiedere di meglio, caro Damon. Quando penserò a una cosa bellissima successa nel 2014, penserò a te e Brian Eno che incidete “Heavy Seas Of Love”. E guai a chi mi verrà  a dire “eh, ma non si saranno manco visti”: se ne vadano già  preventivamente affanculo.

#3) RICCARDO SINIGALLIA
Per Tutti

[Sugar]
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Quando si tira in mezzo la nuova leva di cantautori italiani, mi prende sempre un po’ di sconforto. Mi domando perchè Dente abbia un suo seguito, mentre nessuno si ricorda mai, per dire, di Mauro Pelosi. Magari non è l’esempio migliore, perchè ai suoi tempi i dischi non li vendeva manco ad amici e parenti, ma ecco… quello che mi preme dire è che la figura dell’autore di canzoni (o meglio del cantautore, termine spesso sostituito dall’inglese songwriter, parola anch’essa efficace ma priva della pregnanza semantica del vocabolo tricolore) non è mai stata così svilita e svuotata di senso, inesorabilmente traghettata dalle zone della bellezza a quelle dell’imperante mondo del “carino”. Per fortuna, esistono delle eccezioni: Riccardo si trova tra queste, pronto a dirvi che «la festa che davate per finita è appena cominciata»; che lui c’è, resiste, compone grande musica; con un’attitudine quasi battistiana che non cede alle banali logiche dello spirito del tempo, sfornando arte quando l’ispirazione chiama e non quando la folla strepita.

Le canzoni di Sinigallia sono scritte ed arrangiate come Iddio comanda: sentite, mai uguali a se stesse, alle volte speciali nella loro apparente semplicità . Una semplicità  che è propria del loro autore: un uomo che il mestiere lo fa per vocazione, con impegno, tenacia, badando alla sostanza e mettendo la forma in secondo piano. Non ha bisogno di sentirsi Dio per fare il cantautore, perchè di stronzi è pieno il mondo. L’unico bisogno è quello di far sentire la sua voce; una voce che qui è chiara e urgente.
Squisitamente raffinato, ma devoto al miglior Pop. In due parole: Per tutti.

#2) SHARON VAN ETTEN
Are We There

[Jagjaguwar]

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Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? è un interrogativo che mi frulla in testa da tanti anni, e ho capito solo che quando parlo d’amore, mi lascio aperte due strade: o ci rido su, oppure ne parlo à  la Sharon Van Etten. Non riesco a trovare altra via d’uscita, davvero.
Sarà  per questo motivo che ritengo l’ultimo lavoro di questa splendida musicista una delle migliori prove cantautorali degli ultimi anni; soprattutto perchè è riuscita a parlare d’amore come avrei voluto fare io, chè sono anni che ci provo senza risultati.

Ed è anche raro trovare un matrimonio così perfetto tra synth e chitarre, dove nessuno strumento prevale mai davvero sull’altro: si limitano semplicemente a suonare bene, cullando e accompagnando le parole e le intense interpretazioni della cantante americana, che mi hanno fatto versare copiose lacrime sin dai primi ascolti. Sì, per davvero.

#1) SUN KIL MOON
Benji

[Caldo Verde]

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Al principio, non ce la facevo proprio a scegliere un disco da mettere in cima alla lista: c’era più di un candidato, ma alla fine l’ha spuntata lui. Non ci speravo nemmeno più; lo stavo quasi per dare per bollito, viste le sue ultime prove, che ho trovato fin troppo soporifere. Ma poi eccoti “Benji”. Non arrivo a dire che sia il lavoro migliore di Kozelek a nome Sun Kil Moon, ma ecco: sarebbe forse un’eresia? Da uno che ha scritto e interpretato roba meravigliosa sin dai tempi dei Red House Painters, non mi sarei mai aspettato un disco ispirato a tal punto. Errai, e lungamente errai, ad attendere la solita minestra riscaldata.

Canzoni così non se ne scrivono e non se ne sentono quasi più. Sono in pochi a potersi permettere questo incredibile connubio tra voce e chitarra: sei corde pizzicate e accarezzate, una voce che narra il dolore assieme ai più semplici risvolti di un’esistenza.
Niente di più distante da chi cerca a tutti i costi l’artista maledetto. Niente di più raro, niente di più bello.