Ed ecco di nuovo Björk, creatura indecifrabile che da anni ci affascina e sconvolge, ho sempre pensato a lei come ad un personaggio immaginario uscito direttamente da una leggenda nordica, un elfo, un folletto giunto inspiegabilmente al nostro mondo materiale da un altrove lontano al quale noi comuni mortali non avremmo mai potuto accedere. Indossando poi quell’indimenticabile vestito da cigno alla cerimonia degli Oscar nel 2001 fu evidente, Björk viveva in una fiaba, o così mi piaceva credere.
In tale contesto è stato quindi scioccante per me trovare nel nuovo disco “Vulnicura” una sorta di ritorno alla forma, all’essenza concreta dell’essere umano, stentavo infatti a credere che Björk potesse essere toccata dai problemi reali che affliggono tutti noi, come una separazione amorosa ed i relativi drammi familiari che ne derivano. Eppure è proprio da qui che nasce Vulnicura, dalla necessità di affrontare ed esorcizzare questi lati oscuri della vita con i quali persino Björk si è trovata faccia a faccia. Oltre che per i temi trattati, quest’album è un ritorno alle origini anche sul piano stilistico, forte infatti è il richiamo alle prime e storiche avventure elettroniche dalle forti contaminazioni classiche dell’islandese (“Homogenic” e “Vespertine” in primis). Al fine di plasmare quest’opera per così dire ‘più tradizionalista’, Björk ha comunque scelto di affidarsi a due tra i producers più singolari ed innovativi degli ultimi anni: mi riferisco ad Arca e The Haxan Cloak, i quali più recenti lavori, rispettivamente “Xen” (2014) ed “Excavation” (2013), godono di enorme prestigio.
Nonostante alla base di “Vulnicura” non vi sia insomma un’idea radicale come le sperimentazioni A cappella di “Medàºlla” o l’App album di “Biophilia”, anche questa volta l’artista nordica riesce ad essere assolutamente unica ed inimitabile, sopra alle elegantissime basi strumentali dei due produttori, in cui luce ed ombra combattono un costante duello per la reciproca supremazia, il canto di Björk è dominato da un inquietante senso di ansia ed urgenza, quasi come se stesse lottando con ogni alito di voce per la salvezza ed autodeterminazione della propria persona. “Black Lake”, con i suoi 10 lunghi minuti è indubbiamente uno dei momenti centrali del disco, la voce di Björk fluttua pian piano accompagnata da un’antica melodia che poi evolve in un intenso crescendo. Is there a place where i can pay respects for the death of my family sono le amare parole che aprono la successiva “Family” e quando, giunti circa a metà canzone, un plotone di oscuri archi Paganineggianti prende il sopravvento, le tenebre sembrano avere la vittoria in pugno ma la celestiale Björk trova di nuovo le forze, anche se solo temporaneamente, per illuminare tutto di una nuova e sublime luce.
“Vulnicura” è dunque un disco di contrasti e conflitti, di dubbi e dolore, ma anche di grinta e speranza, con una Björk che indubbiamente ce la mette tutta per poter andare avanti. A mio avviso con quest’ultimo album la sua creatrice è riuscita realmente ad infondere il proprio spirito nella musica, scavando nella terra bruciata con le proprie unghie e nutrendo le radici incenerite con il proprio sangue e le proprie lacrime, ed infine trionfando, rinascendo un’altra volta. Il risultato finale è uno dei traguardi più importanti e sinceri dell’intera carriera della musicista islandese.
Photo: Jean Baptiste Mondino