Si potrebbe catalogarlo come un disco per chi è gia un suo fan; la verita è che è prima di tutto un disco per se stessa. “Ho fatto musica senza fare soldi per un sacco di tempo […] se qualcosa non funziona, posso semplicemente tornare a farlo” ha dichiarato poche settimane fa Katie Crutchfield, ma la prima cosa che colpisce di “Ivy Tripp” è proprio quanto non provi mai a compiacere l’ascoltatore.
Registrato con solo due altri musicisti, Kyle Gilbride e Keith Spencer, suona pressapoco come un suo live: chitarre grezze inserite dritte nell’amplificatore, ritmiche sporche suonate in presa diretta, pianoforti elettrici fanciulleschi. Il risultato è che per sottrazione rimane in evidenza la voce esile ma mai impaurita, e il suo talento straordinario per i testi.
Come nei suoi precedenti lavori, il terreno preferito è l’apparente banalità del quotidiano, le sfumature che compongono le nostre vite e che lei riesce a fotografare in dettagli invisibili ma che è facile riconoscere. Se c’è una differenza con “Cerulean Salt” è che il diario suona ora meno adolescenziale ma altrettanto sincero: la routine è qualcosa da preservare e i compromessi l’unico modo di stare insieme.
Ci sarebbero dozzine di frasi da citare ma la mia preferita arriva sul ritornello di “Air” (“And you are patiently giving me / Everything that I will never need”), forse l’unico momento in cui il disco suona musicalmente più ambizioso e ci mostra quello che potremmo aspettarci da lei in futuro: una cantautrice capace di scrivere nuovi classici, nella stesso campionato di PJ Harvey o Sharon Van Etten.
Per ora però Katie Crutchfield sembra perfettamente a suo agio nel suo mondo lo-fi, tra Pavement e primi Teenage Fanclub o più semplicemente ben ancorata alle sue origini punk nei PS Eliot. Di lei hanno scritto che è piu matura dei suoi 26 anni: lo è nel raccontare le complessità dei sentimenti invece di polarizzarli; lo è anche nello scrivere (coscientemente o meno) un disco che rifiuta ad ogni costo di essere perfetto.