Tempo fa, di fronte a supergruppi, formazioni in duo regalavano sempre quel pizzico di diffidenza, per via di una prestanza azzardata o quanto meno insignificante, ora tutto si è capovolto, fanno tendenza e soprattutto confezionano piccoli capisaldi alternativi da collezionare avidamente, quasi con la bava alla bocca.
I torinesi Bettie Blue escono sugli scaffali underground con il debut album “Yuma”, otto tracce di venefico stoner autoriale che dissipano ogni possibile dubbio circa l’antifona iniziale, un lavoro massiccio e di sostanza personalissima, elettrico fino l’anima e miracolosamente “illeso” da scimmiottamenti stilistici e quant’altro, una aggregazione di grazia rude che richiama senz’altro ad un’istintualità primigenia, ad un concetto di sfogo vitale, indispensabile.
Con la direzione artistica di Omid Jazi, “Yuma” è un cortocircuito di chitarra elettrica e percussioni selvagge, un “face to face, sound to sound” che frastorna e sfiora la libidine della nudità esecutiva, un bailamme dannatamente unico che è euforia sickness di stoner “customerizzato”, in cui il duo intride e innesta dadaismi doom noise “Il mio personale mostro di Lochness”, “No doubts”, doppietta che assesta colpi bassi di non poco conto.
Una certa psichedelica anni 70 si affaccia con la caotica Mamba surf, mentre uno stranissimo fraseggio epilettico funkeggiante “Opera tua” schizza di suo, anticipando stratosfericamente l’onda magnetica orientaleggiante che avvolge Everything but you, e sono sensazioni indimenticabili, sono le impeccabili graffiate di un duo che firma un tot di minuti (30) all’insegna di una espansione sonica quasi eterna, in cui il silenzio, come la morte, sono solo illusioni.