C’è stato un tempo in cui Gesù di Nazareth predicava: “Il vostro parlare sia sì, sì, no, no; il di più viene dal Maligno”; c’è un tempo presente in cui Florence and the Machine consegna al pubblico il suo terzo album “How Big, How Blue, How Beautiful” e non sembra un modo minore per celebrare le affermazioni di carattere assoluto. Perchè se i suoni di “Lungs” (2009) si distinguevano per una specifica arguzia pop, fra fidanzati che costruivano bare e ragazze con un occhio solo, se “Cerimonials” (2011) diluiva il sentimento nei flussi purificatori dei fiumi da cui rinascere, “How Big, How Blue, How Beautiful” non trova più spazio per le sfumature emotive e i compromessi ragionati: il tuo amore sia sì o sia no, il resto è dei mediocri. La tua musica sia grande, più grande ancora, o non sia niente, perchè le mezze misure sono per chi teme l’altezza e non è il caso di Florence Welch.
“Ship To Wreck” in apertura imposta il volume ai massimi: qui è luogo di derive e il finale già scritto è quello del naufragio [con buona pace del producer Markus Dravs, che aveva chiesto a Florence di non scrivere più testi acquatici]. Gridano rabbia non meno della voce, gli strumenti barocchi di “What Kind of Man”, impetuosa di chitarre elettriche e trombe: “tu eri dall’altra parte, come al solito esitante nell’indecisione, che razza di uomo ama così?”. Il tuo sì sia sì, il tuo no sia no, ve lo dicevo. “Queen Of Peace” e “Various Saints And Storms” si alzano gradualmente maestose e corali sulle ceneri della sconfitta. Non ci saranno miracoli in “How Big, How Blue, How Beautiful”, nato sotto il segno di “St. Jude”, in riferimeto al patrono delle cause perse e alla tempesta che ha colpito il Regno Unito nell’ottobre 2013 ““ facile linguaggio figurato per la propria relazione in crisi. Non ci sono nè vincitori nè vinti ma una drama queen con i capelli rossi e un palcoscenico che esige a scenografia la luna il cielo le stelle, quelle vere, mica di cartapesta: il tuo dolore riguarda l’universo tutto e tutto l’universo te ne parla. Arrivano momenti di tregua – “Caught”, “Mother” – ma meno memorabili dei canti di guerra che rendono il terzo full length della Welch un prodotto ricco e maestoso, ancora una volta.
Non è Amy Winehouse, non è Adele, non è Sharon Van Etten nè PJ Harvey (le ultime sono un altro circuito, ma vabbè). Florence Welch ha un posto tutto suo lì dove anche il pop da classifica incontra l’artigianato musicale personale e non ripetibile. “How Big, How Blue, How Beautiful” ne è solo la terza, ennesima conferma.
Ho sempre provato invidia mista a fastidio per la pacatezza, per le emozioni tenui, le discussioni razionali, le donne e gli uomini che non si scompongono ma rimangono pietra nella loro inalterabile superiorità . “How Big, How Blue, How Beautiful” invece è teatrale, eccessivo, dice che non tutti i sentimenti possono essere sospirati ma certe volte è anche questione di voci alzate e porte sbattute. E alla fine va bene anche ritrovarsi sempre da questa parte qui, che forse è quella del torto, ma anche quella della carne viva, e di Florence Welch, negli annuari, Maddalena di rossi capelli del pop britannico.