Tra le poche certezze della vita ci sono, nell’ordine: la nascita, la morte, un album dei Thee Oh Sees ogni sei mesi o quasi. L’attesa del piacere è essa stessa il piacere, scriveva un certo Lessing. Non sembra pensarla proprio così il bulimico John Dwyer, che ritorna, a solo un anno dalla pubblicazione di “Drop”, con una versione parzialmente nuova della sua creatura garage. Alle controvoci, l’indimenticata, eterea Bridig Dawson torna a fare da contraltare al funambolico Dwyer – ogni anno che passa sempre più una versione contemporanea di “Lux” dei Cramps (per capire la weirdness del personaggio, niente è meglio dell’articolo di Vice “John Dwyer writes songs, trims weed” di Ellis Jones). Alla sezione ritmica, Tim Hellman (Sic Alps) e Nick Murray (Ty Segall), amici di sempre che hanno accompagnato più volte la band live, ne diventano ufficialmente membri, aggiungendo spessore ad un suono che, ora, è più denso che mai. Senza incertezze, “Mutilator defeated at last” è finora il miglior album dei Thee Oh Sees: è migliore dell’incerto “Drop”, è migliore dell’immediato e rumoroso “Floating Coffin”, è migliore anche del pur splendido “Help” del 2009, e lo è per due ragioni strettamente correlate.
La prima è che, per la prima volta con i Thee Oh Sees, questo è un album che non potrebbe essere riassunto o condensato in tre, al massimo quattro canzoni. La seconda è che questa volta si sente, eccome se si sente, una produzione degna di questo nome, viene da dire quasi ricercata, per una band che ha sempre fatto delle registrazioni il più live possibile il proprio marchio di fabbrica. Ci sono i bei suoni acidi e vintage, la nostalgia per le chitarre e per tutto quell’amalgama psych e garage che dominava i Sixties e andava dai Monks ai 13th Floor Elevator. E saranno anche dei revivalisti, i Thee Oh Sees, ma “Mutilator…” scorre compatto, veloce -anche nel minutaggio- e più moderno che mai, senza scivolare nell’esagerazione pomposa, nell’epicità à la Mars Volta, nell’autoindulgenza.
Il brano d’apertura, “Web”, è già una dichiarazione di intenti: aliena, sinistra ed ipnotica, ricorda i migliori Black Mountain di “In the future”, con quell’inizio altrettanto fulminante che fu “Tyrants”. Ci sono i divertissements leggeri, da due minuti appena (“Turned out lights”), le chitarre tiratissime (“Withered Hands”), i sei minuti dilatati, con tanto di organo elettrico, di “Sticky Hulks”, la pillola un po’ kraut (“Rogue Planet”). La carica adrenalinica è sempre la stessa, ma si esplora come mai era accaduto in passato e il risultato sorprendente è che non c’è assolutamente nulla da scartare: “Mutilator defeated at last” ha il sapore della maturità , se di maturità , con uno come Dwyer, si potesse parlare. Insomma, se “Mad Max: Fury Road” fosse una band, probabilmente sarebbe i Thee Oh Sees.
Credit Foto: Titouan Massé