I Verdena pubblicano la seconda parte di “Endkadenz” e a me torna in mente un libro che parla di ninfee e camere. Deve essere colpa dello studio in cui questa band registra: un pollaio rimesso a posto, dove non vengono scritte shotgun lovesongs, ma pezzi densi e inattraversabili come le serre tropicali. In quel libro, Colin e Chloè si innamoravano e il loro amore aveva la stessa euforica imprecisione di una canzone suonata per piacere: un’improvvisazione, una melodia suonata ad orecchio. Avete presente “Dymo”? “Saliva dalla pista un frastuono ovale ““ scrive Boris Vian ““ che la musica degli altoparlanti, disseminati tutt’intorno, rendeva complicato”: qualcosa del genere.
Il fatto è che non si sa da dove iniziare per raccontare i Verdena, come non si sa mai come prendere le farfalle senza sciuparle. Non so se ad un certo punto abbia smesso di interessare a tutti capire perchè dicessero ciglierò o cosa sia lo sci desertico, ma, a me almeno, quella dei Verdena sembra più una questione di autobiografie che di comprensione: non era davvero importante capire cosa dicessero e, anche in mancanza di frasi da citare, saremmo riusciti ad annotare margini.
“Endkadenz” risulta un doppio disco straordinariamente organico, fatto di tracciati paralleli, dove le nuove tredici tracce sono appena più dissonanti, con un nucleo duro che parte dalle chitarre di “Colle immane” e passa al centro delle due “Fuoco amico”. Eppure, se dopo “Un po’ esageri” qualcuno citava i Pixies più felici, anche qua i pezzi gioiosi non mancano: è un disco generoso, imperfetto forse, ma generoso, come una canzone pop raffinata ed inquinata. D’altra parte i Beatles se ne andavano in India, i Verdena scrivono oggi “Identikit” e se non vogliamo scomodare i primi sempre, possiamo fare riferimento all’esotismo alla Battiato. Più compatto di “Wow” ““ ma forse l’uscita in due tempi ha reso i due dischi più assimilabili ““ e poco dispersivo, “Endkadenz” non raggiunge forse mai la bellezza di certi pezzi del precedente: è un disco di potenziali singoli e “Troppe scuse” e “Blu Sincero” sono scritture di grazia, ma nel complesso il sesto album della band non ha lo stesso grado di significanza.
Tra i pezzi più belli, “Waltz del Bounty” è la gemella di “Trovami un modo semplice per uscirne”: una canzone prima che l’acqua si alzi troppo, che il resto del mondo prenda il sopravvento. Come la copertina, così le canzoni si macchiano dello stesso mood indigo de La schiuma dei giorni: e allora quel tono da walzer vorticoso si allenta in qualcosa di malinconico: a Chloè spunta una ninfea nei polmoni e le stanze iniziano a contrarsi con lo stesso senso di claustrofobia di un pezzo dei Verdena, come se, in assenza di una struttura rigida, le canzoni finissero per riempire tutto lo spazio a disposizione.
Nella sala da pranzo non si poteva più entrare. Il soffitto aveva quasi raggiunto il pavimento, al quale era unito da proiezioni per metà vegetali, per metà minerali, che si avviluppavano nell’umida oscurità . La porta del corridoio non si apriva più. Sopravviveva uno stretto passaggio che portava dall’entrata alla camera di Chloè.
Qualcosa del genere, insomma.