Gli Yo La Tengo sono accompagnati in ogni loro lavoro da un’aura di cinematografia. Tutti i loro album è come se fossero nati e pensati per fare da colonna sonora ad un lungometraggio in concorso al Sundance Film Festival.
Non fa eccezione “Stuff Like That There”, una raccolta di cover di alcuni dei brani preferiti dalla band del New Jersey. Gli YLT hanno un rapporto molto stretto con le cover tanto da proporle spesso anche nei loro concerti o come in questo caso farne un album. Era già successo nel 1990 con “Fakebook”, il loro quarto LP, dove ritroviamo lo stesso format: due terzi del disco sono cover di brani significativi per la band, un paio di loro brani rivisitati per l’occasione e un altro paio di inediti. Il tutto in un’ambientazione strumentale semiacustica che contraddistingue il percorso intrapreso negli ultimi album ed una maggior armonia costruita nei quasi venticinque che sono passati da “Fakebook”. Punto forte di “Stuff Like That There” è proprio l’armonia: unire brani che spaziano da un country anni ’40 ad un alt-rock dei primi ’90 non è impresa semplice e l’effetto compilation masterizzata su un vecchio Verbatim vuoto è dietro l’angolo, ma gli YLT riescono egregiamente a far di ogni brano una destrutturazione dell’impianto di base, lasciando di originale solo il testo, accompagnato da un arrangiamento nel loro più pieno stile. Cadere nel banale facendo il verso ad alcuni dei brani più (o meno) famosi può diventare un boomerang che ti torna indietro colpendoti dritto in testa, ma gli YLT riescono ad imprimere un ritmo delicato e avvolgente a tutto l’album, creando così dalla diversità e complessità di ogni brano un trait d’union interessante. L’ambientazione è quella di un pomeriggio, quell’attimo prima che inizi il tramonto.
Le canzoni più familiari e riconoscibili ai più sono sicuramente due: la laconica “I’m So Lonesome I Could Cry” di Hank Williams e “Friday I’m Love”, una delle più atipiche, ma nello stesso tempo più conosciute hit dei The Cure. La prima rientra spesso nella setlist dei concerti della band per loro stessa ammissione sin dai primi anni ’90, mentre la seconda è forse l’unica concessione popular del disco. Le restanti cover sono scelte oculate tra quelle che per la band rappresentano perle della scena indie rock che sono rimaste troppo nascoste alle attenzioni che avrebbero meritato. Ecco quindi “Naples” (Antietam), “Automatic Doom” (Special Pillows, gruppo storico di Hoboken, stessa città degli YLT) e una delle più riuscite del disco, “Before We Stop To Think”, dei Great Plains. Ma anche la psichedelica serenata dei The Parliaments, “I Can Feel The Ice Melting”. Le nuove canzoni, “Awhileaway” e “Rickety” si insinuano alla perfezione, tanto da risultare riconoscibili come nuove solo ai più fedeli ascoltatori della band; “Rickety”, che inizia con una bass line rullante, quasi spazzolata, che accompagna l’eterea voce della Hubley, modulata in versione country, è la più riuscita.
Gli YLT si mettono poi a sfogliare tra la loro prolifica produzione perchè non ci può essere un cover album degli YLT senza una loro canzone e scelgono tra due LP fondamentali, “The Ballad of Red Buckets” da Electr-o-Pura e “Deeper Into Movies” da “I Can Hear the Heart Beating as One”.
Per l’occasione torna a far parte del trio Kaplan–Hubley–McNew anche il chitarrista che fece parte del progetto “Fakebook”, Dave Schramm.
“Stuff Like That There”, non è un album eclatante e non lo vuole essere. è un regalo che si(ci) concedono fermandosi a guardare indietro nei trent’anni di carriera trascorsi. Ma gli YLT non desiderano mettere un punto, bensì dei punti di sospensione, creando un ponte spazio-temporale tra quelli che erano e i progetti futuri che li vedranno protagonisti. Ciak! Azione! Godiamoci il tramonto.