In un episodio delle ultime stagioni di Mad Men, Sally Draper siede con Don al tavolo di uno di quei ristoranti che si trovano lungo le superstrade; è il giorno di San Valentino e lei e il padre non hanno altri con cui condividerlo; Sally, a un tratto, rompe il silenzio, dicendo “I am so many people”. Sono lontani i giorni della ribellione, sono lontani i giorni in cui Don non suscitava in chiunque un moto di compassione e così il più delizioso dei personaggi di Mad Men mi è tornato in mente con il nuovo lavoro di Julia Holter: l’artista che una volta componeva interi album nella sua cameretta con la carta da parati a fiori, ha lasciato sobborghi e s’è mossa per la città , s’è persa, è diventata “oh, so many people”. Se “Loud city song” si ispirava a “Gigi“, di Colette, l’opera di diseducazione sentimentale di una ragazza inaspettatamente attraente e adulta ““ un po’ come Sally Draper, quel giorno che si era messa l’ombretto e gli stivali e sembrava pronta per andare sulla Luna o dappertutto ““ in “Have you in my wilderness” incontriamo tutti le persone che oggi è Julia Holter. Lontana dall’eterea stratificazione di suoni di “Ekstasis” ““ ma, messe in progressione, le sue opere indicano uno sviluppo piuttosto organico ““ qua protagonista del suo album è la voce. Protagonista sono anche le storie che la Holter finalmente ha deciso di raccontare con la stessa accuratezza che avrebbe da autrice di racconti e la grazia delle ragazze che hanno passato più tempo in mezzo alle parole degli altri, che nelle proprie. “Have you in my wilderness” non è un saggio della bravura di questa artista, ma è la diretta conseguenza di un talento che ha avuto i mezzi per manifestarsi in una forma sempre più personale, come se avesse imparato ad esprimersi in un alfabeto che è stata costretta ad inventarsi. Dove “Loud City Song” appariva confuso e immenso, “Have you in my wilderness” acquista un senso di cristallina pulizia: il jazz corretto da canzoni che paiono appartenere a Nico, “How long?” come un pezzo di Sibylle Baier che non ha bisogno di quarant’anni per essere amato.
La vera gioia di “Have you in my wilderness” è che mostra quello che alcuni non avevano ancora capito e cioè Julia Holter non è solo una delle musiciste più colte là fuori (“Lucette stranded on the beach” è tratta ancora dall’opera di Colette, ma stavolta è l’unica traccia propriamente letteraria), ma anche una donna che sa come divertirsi; mettete su “Feel you” e “Sea calls home” e ballate, insomma. Julianna Barwick ha la serietà delle scritture notturne e delle immagini catturate per caso dalla macchina da presa; Grouper l’esoterismo dei “Picnic at Hanging Rock”, della musica che non ha bisogno di parole; Julia Holter, invece, un giorno, come Sally Draper, ha camminato per le strade di qualche capitale e al telefono con un amico ha detto che la città era sporca, ma che questo non l’aveva turbata. Sa camminare con eleganza, la Holter e se cade,non è un problema (“I’ll fall, you know I like to fall”), come non sono un problema l’ora di punta e il fatto che a Città del Messico piova così tanto.
Sempre più vicina a certa arte femminile ““ ogni progetto sembra meritarsi il titolo di installazione, lo spazio delle gallerie d’arte ““ un po’ come una Sophie Calle o una Francesca Woodman senza il dovere di aderire a una poetica qualsiasi o riempirsi le mani di vernice e polvere, Julia Holter continua a scrivere album con la consapevolezza che, già adesso, si può concedere il lusso di osservarci dall’alto, con Betsy, “on the roof”.