Liquidare il disco di A$AP Rocky uscito in questo 2015 come un semplice lavoro monopolizzato dall’LSD sarebbe piuttosto semplice. Rakim Mayers, nome di battesimo del rapper di Harlem, ha ammesso di essere stato pesantemente influenzato dalla droga sopracitata e i suoni del secondo album “At.Long.Last.A$AP” rimandano a sensazioni facilmente ricollegabili alla sostanza psichedelica.
C’è anche una storia personale costellata di racconti sulla droga: padre spacciatore finito in prigione, fratello ucciso e altre situazioni vissute ogni giorno da una certa parte ancora marginale di americani. Sì la globalizzazione, perfetta l’interconnessione e il benessere a portata di mano, ma in certi quartieri non sono affatto scomparse discriminazioni e subdole rappresentazioni. Esistono a dirla tutta anche autorappresentazioni troppo indulgenti, eppure negare che in certi casi la musica sia l’unica speranza di ascesa sociale è come vivere in un’altra dimensione.
Tutto questo per dire che Rocky sembrava davvero sulla strada dell’identità  forte: “Fashion Killa” e “Pussy, Money, Weed (All I Really Need)” ed il collettivo con i soci dai denti dorati creavano una sorta di qualificazione. Abbastanza diverso invece il discorso sulle coordinate geografiche di una rinascita legata al rap newyorchese, da sempre le influenze del southern rap hanno avuto un ruolo quantomeno paritario rispetto alle altre componenti. Paragonare (e pompare) The Mob ai Wu-Tang Clan non ha mai avuto troppo senso dunque, l’ambiente circostante è troppo mutato per ripercorrere alla lettera la via già  tracciata. Comunque una certa apparenza risultava, e per A$AP Ferg lo è ancora sicuramente, rassicurante nel suo presentarsi “sporca”.

“Who gives a fuck about who I’m fucking? Nobody really cares. It’s fun to hear, but who really gives a fuck about Rita Ora’s fucking?”

Per il recente LP Rocky non si è fatto mancare quasi nulla, il dissing all’ex compagna Rita Ora rappresenta l’ultimo tassello. Parlare si sta facendo sempre più difficile, la libertà  si restringe e le critiche di default costringono in gabbia un’ignoranza che prima o poi comunque esplode.
In questa sede le discussioni sessiste fregano poco ““ sono altri gli ambienti in cui il sessismo fa danni ““ e musicalmente parlando non si può non citare l’ingrediente presente ormai dovunque.
Lil Wayne non manca mai, e sinceramente la sua strofa in “M’$” è tra i momenti positivi da sottolineare più volte. Altra collaborazione riuscita e continuativa nell’intero disco è quella con Joe Fox, cercatevi la sua storia strappalacrime e perfettamente adattabile per una breve su La Repubblica.
Kanye West pare scazzato, mentre il breve spezzone donatoci da M.I.A rende “Fine Whine” uno dei pezzi più rappresentativi. Oltre al singolone “L$D”, con tanto di video futuristico e allucinante, infatti si mette lì in primo piano il mood imperante: slow, slow, slow, slow.
Le tamarrate sono anch’esse liquefatte (“Lord Pretty Flacko Jodye 2”), Schoolboy Q in “Electric Body” è sornione e lo si può immaginare mentre gigioneggia in sala, miscelando ulteriormente un rap che si allontana in ogni direzione dal centro. “Wavybone” con il suo flow più classico è capace di aprire un sorriso sul volto dell’ascoltatore, mentre “Back Home” segna la fine ed il dovuto tributo al compianto Yams, cofondatore della crew e perno oltre il quale bisognerà  per forza andare.

Nel complesso “At.Long.Last.A$AP” è un disco qualitativamente sufficiente, ma forse troppo ruffiano. Rocky ha per il momento abbandonato un certo immaginario che funzionava, non si capisce se per convinzione o altro. Coraggio di reinventarsi o calcolo furbetto? Manca un’identità  chiara, fatto che in questo periodo storico piace molto; il rap forse è tutt’altro, o forse chi scrive è troppo tradizionalista e legatissimo ad altri artisti che quando sperimentano lo fanno solo per soddisfare il loro strabordante ego. Magari aveva solo voglia di drogarsi e poi vedere cosa succedeva, ci sentiamo tra due anni Rakim.