Il percorso di ricerca dei Decemberists ha avuto da sempre un fine ben chiaro sulla linea dell’orizzonte: quello di dar sponda e giusto equilibrio al lirismo teatrale, ricco per scelta e pieno di narrazioni del suo leader. L’ansia di indulgere in una forma canzone oltremodo ricercata è ormai parte del passato, e l’ultimo corso di Colin Meloy e compagni (quello da “The Kings is Dead” in poi, per intenderci) lo dimostra. “What a Terrible World, What a Beautiful World”, rilasciato poco più di sei mesi fa, supera definitivamente anni di pellegrinaggi erranti, pur eclettici e fino al paradosso della rock opera, in direzione di un cantautorato (finalmente) pop, essenziale e sapiente nella melodia, orgoglioso dei suoi confini folk rock ma smaliziato nelle intenzioni.
Premessa dovuta per introdurre a questo “Florasongs”, EP di cinque brani messi sapientemente in panchina a non scalfire l’economia del loro ultimo lavoro – addio alle tracklist infinite dei tempi di “The Hazards of Love” – ma per nulla meritevoli d’esser dimenticati. A onor del vero, poco viene aggiunto al lustro del loro canzoniere e non si rincorre alcuna coerenza stilistica, ma il livello di ispirazione resta alto. Confermati tutti i marchi di fabbrica, dal loro classicismo genuino (il magnetismo country-pop di “Why Would I Now?”, il simbolismo etereo e la melodia accorata di “The Harrowed and the Haunted”)
alla propensione a tirar fuori le cartucce migliori nelle ballad al chiaro di luna e polvere del deserto (le movenze placide di “Riverswim” e il teso soliloquio in chiusura di “Stateside”, l’ennesima ode sognante che pare sussurrata all’orecchio direttamente da Michael Stipe dei REM).
Poco altro da aggiungere nel merito, se non che questa parte della carriera della formazione di Portland rivendica tutto il loro stile, ormai personalissimo, fuori e dentro i long playing, sul terreno di una semplicità ritrovata e, forse, della formula più matura e convincente della loro carriera. E poi la semplicità quando agognata, si sa, ha sempre un sapore più dolce.