La prima volta che mi sono innamorata, camminavo moltissimo. Non avevo mai una meta, ma uscivo di casa e camminavo per chilometri in una città che mi era ogni giorno più familiare e più distante. Non so se fosse una forma di esorcismo o un modo per esaurire le energie che mi restavano, ma da allora ho sempre considerato innamorarsi e camminare due attività gemelle. Hannah Hoch e Marina Abramovich avevano reso quest’azione un’operazione artistica, ma non contava poi molto. Ascoltavo sempre lo stesso disco ed era “Stories from the city, stories from the sea”: potevo scegliere una maestra diversa per innamorarmi, ma avevo scelto la migliore. Li senti? Sono gli elicotteri, sono a New York: quella era la voce di Thom Yorke ““ Thom Yorke e PJ Harvey nello stesso disco, roba da non crederci ““ e io non ero a New York, ma quegli elicotteri li sentivo sul serio, o forse era solo che non riuscivo più a leggere la confusione da cui ero circondata. Questo disco, su tutti gli altri, aveva la capacità di esprimere il senso di offuscamento che provavo quotidianamente e non so perchè Polly Jean lo avesse scritto, ma la storia di un album è anche la storia di tutte le persone che se ne sono appropriate.
In quei mesi il mio corpo era attraversato da una strana elettricità e pensavo che avrei potuto incendiare le cose o che avrei fatto saltare i sistemi di sicurezza dell’appartamento in cui ogni sera rientravo, stremata. La voce della cantante inglese era un conforto e una rassicurazione: nessuna delle due aveva capito perchè l’amore fosse una cosa complessa, perchè invece non fosse fatta solo di possesso e di tutte quelle cose che avevano detto e che non ci saremmo dimenticate, anche se non ce le fossimo appuntate.
Così Polly Jean chiedeva se ti ricordassi il primo bacio, con le stelle che sfolgoravano nel cielo, mentre il mondo si preparava alla guerra e la chiamata alle armi riguardava tutti: lo cantava in “One line”, e quella sensazione aleggiava nell’aria o nell’odore che gas di scarico, che, mischiato alla pioggia, profuma quasi di gelsomino; era il 2000 e New York era un corpo ancora privo di quella ferita che ci avrebbe lasciato tutti con un senso di vuoto, di paura e di tutto quello che non possiamo elaborare. Dopo sarebbero rimaste in piedi le parole di “A place of called home” che promettevano di trovare un giorno “a place of hope”, ma toccava ripetersele finchè non fossero entrate abbastanza a fondo nel sistema linfatico. Oggi, a quindici anni dall’uscita dell’album, la cantante inglese celebra i suoi 46 anni con i libri di poesie, più eterea e evanescente di come non era su quella copertina, dove veniva immortalata in mezzo alle strade della metropoli. E, ancora oggi, “Stories from the cities, stories from the sea” rimane il motivo per cui ho amato certe cose più di altre, quando riuscivano a ricordarmi un tetto di Brooklyn su cui non ero mai salita, ma di cui sapevo tutto; come qua:
Sopra di noi le stelle nascoste dall’inquinamento luminoso erano presenze simili a parole proiettate lontano nel tempo, e percepivo intensamente il fatto che la città era circondata dall’acqua, da acqua in movimento; percepivo la delicatezza dei ponti e delle gallerie che la attraversavano, e del traffico lungo quelle arterie, come se una sorta di riconfigurazione della corteccia cerebrale ora mi permettesse di vivere le infrastrutture come qualcosa di personale, un guizzo di propriocezione in anticipo rispetto al corpo collettivo [“…] Io ero lì, ancora accaldato per il coito, coi sensi che vibravano all’unisono con la città intera, e non desideravo altro che possederla ed esserne posseduto di nuovo.
La Hoch aveva camminato da Berlino a Roma per liberarsi di un amore, Marina Abramovich aveva percorso tutta la muraglia cinese solo per dire addio a Ulay. Io camminavo, Polly Jean cantava. Due attività gemelle.
Un’amica, anni fa, aveva pubblicato “You said something” con la didascalia “Tre camere a Manhattan” e quello che riconoscevo in tutte quelle storie, che fossi io, Polly Jean, Ben Lerner o George Simenon a raccontarle, era che non parlavano d’amore, ma di città , delle polveri sottili, dei palazzi circondati da aloni e dell’inquinamento luminoso come forma di ultimo romanticismo. La città era sporca, ma lo eravamo anche noi.
PJ Harvey ““ “Stories from the City, Stories from the Sea”
Data di pubblicazione: 23 Ottobre 2000
Registrato: Marzo”“Aprile 2000
Studi di regitrazione: Great Linford Manor in Milton Keynes, UK
Tracce: 13
Lunghezza: 47:25
Etichetta: Island
Produttori: Rob Ellis, Mick Harvey, PJ Harvey
Tracklist:
1. Big Exit – 3:51
2. Good Fortune – 3:20
3. A Place Called Home – 3:43
4. One Line – 3:14
5. Beautiful Feeling – 4:00
6. The Whores Hustle and the Hustlers Whore – 4:01
7. This Mess We’re In” (featuring Thom Yorke) – 3:57
8. You Said Something – 3:19
9. Kamikaze – 2:24
10. This Is Love – 3:48
11. Horses in My Dreams – 5:38
12. We Float – 6:07
13. This Wicked Tongue – 3:42 (UK & Japan bonus track)
Ascolta per intero “Stories from the City, Stories from the Sea”: