Anno Domini 2011, sono a Bologna da pochi mesi e vivo tutto con esagerata meraviglia ed eccitazione. Passeggio per via Zamboni alle sette di sera e vedo tutte quelle belle vetrine dei bar con tavoloni imbanditi a buffet. Che meraviglia! Così questo è un vero aperitivo! Più cibo di quanto possa anche solo pensare!
Anno Domini 2015, sono a Pesaro per il weekend ed ascolto il nuovo album di Larry Gus e mi torna in mente lo stesso tavolo stracolmo di cibo, e lo stesso senso di stupore di fronte ad un universo così sconfinato da intimorire il mio piattino di plastica così minuto.
Perchè quello che costruisce sapientemente Panagiotis Melidis è un mondo in cui le sonorità più disparate e discordanti si uniscono in un connubio vivace, esplosivo e traballante.
Un girotondo di quarantasette minuti in cui “quello che mi piace” balla, mano nella mano, con “quello che non mi sarei mai aspettato”.
Che poi ci si potrebbe aspettare qualcosa di diverso da un’artista greco, che vive a Milano, che si ispira a Lucio Battisti, e che è prodotto dalla DFA Records di James Murphy (pensate a cosa ha combinato in “Reflektor” con gli Arcade Fire)?
Non ho neanche iniziato l’ascolto e già percepisco del disagio nel osservare la cover dell’album. Certo, perchè due dita negli occhi negli occhi in bianco e nero su sfondo di colori fluo non è che ti facciano sentire proprio bene.
Aggiungiamo poi che la brutalità di quel gesto mi ricorda qualcosa, qualcosa di brutto: le dita negli occhi più famose della storia della tv via cavo, cioè quelle di “Game of Thrones” (se avete visto sapete a cosa mi riferisco).
Quello smarrimento e quel disagio, in parte nuovo ed in parte derivato, non diminuisce poi quando schiaccio play. Piuttosto, aumenta.
Perchè, come vi ho detto, questo LP è bello per la sua natura contraddittoria, diretta, straniante.
Prendiamo per esempio l’introduttiva “Black Veil of Fail”, una litania su pianole che si trasforma a metà del brano in un sirtaki balbettante ed a velocità quadruplicata, per poi convertirsi in una ballata pop potente in cui si rincorrono i synth e le percussioni caraibiche.
“NP-Complete” poi, è anche peggio. Un canto femminile che sembra provenire da un villaggio polveroso dell’Africa Subsahariana apre ad un brano cadenzato in cui un riff di basso ed un paio di tasti battuti in un ritmo che è quasi reggae accelerano e decelerano, per poi fermarsi e ripartire, e così via, in un delirio corale che ricorda gli Animal Collective più ispirati.
La successiva “A Set of Reptiles” è invece meno labirintica è più tradizionale: una classica ballata, indie ed elettronica, eterea e sognante, in cui i synth costruiscono un’atmosfera più familiare e rassicurante.
“Belong to Love” è un bellissimo pezzo in cui si uniscono le atmosfere cupe e, non troppo velatamente, anni ’80 di Kavinsky con la vitalità educata ed ordinata dei ritmi caraibici di “Here Come the Nightime” degli Arcade Fire.
C’è anche spazio per un po’ di sanissimo hip hop che viene rivisitato in chiave quasi parodostica in “All Graph Explores”.
Arrivati alla conclusione provo a tirare le somme di quello che ho ascoltato ma rimango a fissare la pagina di Spotify con lo sguardo inebetito: ora cosa dico? Ora come lo etichetto?
Improvvisamente mi sento impotente ed in estrema difficoltà come quando a sette anni provavano a spiegarmi le moltiplicazione a più cifre. Troppi numeri, troppi riporti.
Ammetto la mia inettitudine di fronte a tutto ciò e mi arrendo: “I Need New Eyes” è un viaggio stupendo di contaminazione, uno stravolgimento continuo, un castello di carte imponente che viene soffiato via ogni volta e viene sempre ricostruito diverso, Panda Bear che mangia una pita su un traghetto, James Murphy che fa la spesa e decide di esagerare con il cardamomo.