Quella messa in scena da Jacques Audiard con “Dheepan”, film vincitore dell’ultimo festival di Cannes, è una personale teoria della gravità universale applicata in senso umanistico: forze dell’animo, come la violenza e la libertà , che nel loro incessante bisogno di esprimersi nei contesti in cui vivono si attraggono e si scontrano.
Ed è proprio dalla brutalità della guerra che imperversa nel proprio paese (lo Sri Lanka) da cui Dheepan, ex soldato rivoluzionario, vuole fuggire, trovandosi per disperata necessità e calcolo di sopravvivenza a farlo insieme a due sconosciute, una donna e una bambina, fingendosi una famiglia.
Approdati in Francia, dai margini del mondo, in una banlieue che rappresenta invece il margine della società “occidentale”, il costretto nucleo familiare si trova a convivere con la criminalità del quartiere.
Nella prima parte del film si entra nello straniamento dei protagonisti, espresso con intensità dai loro volti, a contatto con quello che per loro è un mondo nuovo e nel disagio del non riuscire a farne parte. Il regista qui gioca, anche con ironia, sul filo dell’incomunicabilità : fra i membri della neo famiglia, che pur parlando la stessa lingua seguono istinti diversi e tra i medesimi ed il minaccioso sostrato sociale che si presenta ai loro occhi.
La seconda parte del film cambia completamente registro, virando verso un genere drammatico dalle tinte noir in cui la violenza del quartiere, sempre latente, prende il sopravvento inghiottendo nella sua spirale anche i protagonisti. Qui emerge l’istinto irrefrenabile di Dheepan di sganciarsi da essa, difendendo a tutti i costi quel brandello di normalità che lui e la sua “famiglia” hanno con fatica conquistato, divenendo una sorta di “eroe” sub-urbano.
La bellezza del film sta nel raccontare i contrasti, a partire dai generi cinematografici utilizzati: il rapporto indissolubile fra l’amore e la violenza e la contrapposizione fra la realtà , opprimente, in cui tutti i personaggi sono intrappolati dalle circostanze ed il profondo desiderio di vivere un’esistenza libera, che ambisca alla dignità .
Il tutto è esaltato dall’impiego di immagini (un plauso va alla duttile fotografia diretta da à‰ponine Momenceau), anche surreali, che tengono lo spettatore incollato allo schermo e che si focalizzano, come per i precedenti lavori di Audiard, su un dettaglio, una particolare prospettiva, un gesto, uno sguardo che sostituisce le parole, quasi rendendole superflue.
Infine, la prova attoriale di Jesuthasan Antonythasan – Dheepan (che è stato realmente membro delle Tigri di Tamil ““ esercito rivoluzionario dello Sri Lanka – dai 16 ai 19 anni) è davvero convincente.
Occorre tuttavia riconoscere come la scelta del regista di mescolare i generi non appaia sempre armoniosa, e che il non indugiare, in profondità , sul rapporto che si instaura fra i “coniugi” – forse per non scivolare nel retorico – faccia perdere un po’ di empatia al film, che talvolta scricchiola come le foglie calpestate dai protagonisti lungo il parco della banlieue ma che va avanti inarrestabile ricompensando lo spettatore con una storia avvincente, assolutamente coinvolgente. Da non perdere.