Didi, I belong in California / I came out here to disappear / And disconnect the dots
(“It’s a game”)
Attento a quel che desideri, potrebbe avverarsi, diceva Oscar Wilde. Che lo abbia pensato almeno una volta anche Matt Berninger negli ultimi anni, sembra probabile. Ma lungi dal dispiacersi dei suoi successi (troppo saggio e cresciuto per certe cose), Berninger si crea piuttosto una valvola di sfogo ad hoc e se la fa bastare. Che, tradotto nella vita pratica, significa andarsene da New York per la sempiterna rivale Los Angeles (ricordate Annie Hall? E Paul Simon che fa il produttore biancovestito della west coast? Per qualche ragione questa foto promozionale di El vy me li ha ricordati all’istante), mettere su un paio d’occhiali da vista così stagni che sembrano quasi da sci, e forse, pare, lasciarsi crescere i boccoli biondi. Nella vita professionale invece significa tirare in ballo persone di fiducia, di vecchia data, con le quali si è già suonato in tempi non sospetti, in locali spesso mezzi vuoti (come racconta la stessa etichetta 4AD); e in questo caso specifico, significa tirare in ballo Brent Knopf (Ramona Falls, Menomena), e dare spazio ad un progetto laterale che adesso ci si può permettere, anche solo perchè se ne ha voglia o perchè serve a tener a bada certa inevitabile insofferenza e irrequietezza.
I just need a friend to guard the door / I just need a couple minutes on the floor / I just need to talk to you for a second / I just need a break from the sound, cause it’s killing me
(“Need a friend”)
Pur non volendo collegare in tutto e per tutto il cantante ai The National, non mettere in relazione “Return to the moon” alla figura di Matt Berninger, e quindi al suo percorso artistico e personale, sarebbe non solo impossibile, ma probabilmente anche sbagliato. Tant’è che uno dei primi pensieri che sfiora, ascoltando i testi di quest’album, è che si tratti di un lungo dietro le quinte dei suoi ultimi anni, anni in cui la sua vita è cambiata radicalmente; e non come può cambiare la vita di un teen idol ma come può cambiare la vita già avviata di una persona adulta nel mondo dei comuni mortali che si ritrova un bel giorno definito dalle riviste “il più carismatico frontman del mondo”. Il che penso faccia differenza sia in termini di consapevolezza che di senso di appartenenza (altrimenti, forse, non si sarebbe cercato quell’amico di vecchia data, raccontando dei tempi della gavetta).
Il dietro le quinte in cui ci portano gli El vy infatti non è solo un dietro le quinte, ma l’intera collezione di pensieri che si possono fare stando in piedi dietro le quinte; osservando sì le luci della ribalta accese, ma solo per immaginare come sarebbe se non ci fossero, o il momento futuro in cui potrebbero non esserci, o per ricordare il momento passato in cui non c’erano.
Non a caso l’etichetta di El vy definisce l’album not a replacement or a side project, but a glimpse into an alternate musical universe: a universe in which Berninger never left Cincinnati, and Midwestern punk Mecca the Jockey Club never closed
Il mood di El vy è altro rispetto al pathos al quale ci ha abituati Berninger. Proprio perchè si tratta di qualcosa che negli intenti è meno impostato e più genuino, spontaneo, intimo. Più in relazione con i toni medi del quotidiano che coi picchi d’intensità delle serate riflessive passate da soli. This record is more autobiographical than anything else I’ve written ha detto Berninger. E la stessa genesi di “Return to the moon” viene raccontata come un disinvolto scambio tra amici: “Brent sending Matt occasional rough sketches of music and Matt responding with melodies and lyrics”.
Il fatto è che “Return to the moon” è davvero un collage di ritagli salvati nel tempo. E non sembra affannarsi a voler sembrare qualcosa di diverso o qualcosa di più. Il clima del disco è stato definito non a torto liberatorio e scevro di pressioni, e si percepisce veramente un che di disimpegnato. Domina una sorta free-pass di suoni e atmosfere; c’è una partenza easy listening con la title song, e una coda di alt rock nervoso (“Sad case, “Happiness, Missouri”), con nel mezzo digressioni ammiccanti al blues (“Silent Ivy Hotel”) e innocente pop (“Sleeping light”). A discapito però di un focus centrale. Musicalmente il clima oscillante ha un effetto di dispersione. E benchè il suono non sia mai scontato, nell’insieme si risente della mancanza di un progetto totalizzante, di un concept incisivo.
Tuttavia ridurre l’album ad una parentesi da ricreazione è una tentazione alla quale solo un ascolto superficiale dell’album può far cedere. La qualità non manca. I testi di Berninger hanno sempre da dire. E le strutture musicali che li accompagnano sono fin troppo suntuose e fin troppo variegate, ma mai scadenti o banali.
Senza contare la classe di sapersi prendere in giro da soli. Vedere alla voce “I’m the man to be”.
I’m peaceful cause my dick’s in sunlight / Held up by kites / Cause I’m the man to be