Sabato 31 ottobre, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, gli americani Yo La tengo -veterani del rock alternativo- si sono esibiti in due emozionanti ore di concerto,
a distanza di nove anni dalla loro ultima performance italiana.
Gli Yo La Tengo suonano insieme da trent’anni, ma quando salgono sul palco sembrano tre che si incontrano in un garage per farsi una suonata dopo il lavoro. Non perchè tirino fuori note buone solo a essere sovrastate dalla tv della signora di sopra, ma per la voglia che hanno: di quando inizi, e provi, e sperimenti, e non lo sai neanche tu quello che uscirà ma ti fa stare bene.
E invece loro tre sono un’istituzione della musica indie americana, anche se te li immagini più facilmente a uno di quei mercatini allestiti in giardino la domenica mattina. La band di Hoboken, New Jersey, fa della musica un continuo riciclo creativo, destrutturando e rimontando brani, successi, e sonorità loro e di qualcun altro, senza che ci perda nessuno. Sperimentano, cambiano, pasticciano anche, ma non sono mai caduti nell’errore di farti sentire di troppo mentre li ascolti.
Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew, quando li accendi, ti sembra sempre di ascoltare qualcuno che sta suonando per divertirsi lui e far divertire subito dopo anche te, per rilassarsi e far rilassare, per tenersi compagnia e tenertene.
E così fanno anche a pochi metri di distanza, quando sei seduto a sentirli dal vivo: entrano in scena, nella Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, come se li avessimo chiamati dalla stanza accanto, e si mettono a suonare immediatamente una cover di Gene Clark, “Tried So Hard”.
Sul palco alcune copertine dei loro quattordici dischi, tra cui quella disegnata da Georgia per l’ultimo ‘Stuff Like That There’, in occasione del quale ha fatto ritorno anche Dave Schramm, seconda chitarra del gruppo nei primi anni di attività . Al secondo pezzo ti accorgi che hanno cominciato a parlare di te, chiunque tu sia: “Is That Enough” è un racconto in chiave folk, un viaggio col finestrino tirato giù e il cuore che non torna più lo stesso, perchè è tristemente vero che
what can’t come back’s what we can’t bear to lose.
Due ore di esibizione divise in due set che iniziano così, e continuano col duetto di Ira e Georgia in “Rickety”, negli anni ’60 di “My Heart’s Not in It” con Georgia in piedi dietro la batteria posizionata al centro della scena, con le introspezioni notturne di “Naples” e i vocalizzi di James nella cover di “I Can Feel the Ice Melting” dei The Parliament. Concludono la prima ora con “Deeper Into Movies” tutta chitarre/niente batteria e con la cover più famosa dell’ultimo disco, quella ‘Friday I’m in Love’ a cui hanno tolto tutto il rock che c’era, ridipingendo di un bel blue malinconia uno dei rari casi in cui The Cure erano stati un po’ scanzonati.
Sembra di essere al cinema negli anni ’90 – quando tra i due tempi del film si sperava che il tipo con le bomboniere passasse vicino ai nostri posti – mentre li aspettiamo seduti per la seconda parte di concerto. Ha l’andatura cinematografica l’attacco di “Automatic Doom”, e sembra di star dentro alla colonna sonora di un documentario sul noise newyorkese di fine millennio quando partono le prime note della sonic-youthiana “Double Dare”, seguita da “Awhileaway” che, semplicemente e nonostante la distanza, ti buca un po’ il cuore.
A metà di questa seconda ora con gli Yo La Tengo arriva “Today is The Day”, da “Summer Sun” del 2003 – disco bello e contaminato che traccia linee e amplifica spazi – e sembra che tra le poltrone faccia un po’ freddino, che ci sia della sabbia nelle nostre scarpe, ma che stia anche per farsi giorno. A rimettere le cose a posto arriva il riffone di ‘Pass the Hatchet, I Think I’m Goodkind’ con la chitarra psichedelica di Ira, per poi cadere di nuovo nella spirale morbida e trasognata di “Big Day Coming”, finchè non veniamo risistemati sui nostri piedi dal suono confortevole dell’instant-classic ‘Ohm’, dal penultimo lavoro in studio, Fade, del 2013.
A chiudere arriva lei, suonata un’ottava più alta: “Our Way to Fall”, forse la canzone che più di tutte fa della nostalgia il trademark di questa band. Quella che ti fa venire voglia di usare il verbo ‘piovere’ solo nella forma transitiva, per capirci. Ma soprattutto quella che ti fa rivalutare la faccenda d’esserti fatto spezzare il cuore con una mazza chiodata.
Perchè a sentir lei (la canzone, non la mazza), ne è valsa la pena.
Gli YLT rientrano per tre encore: la “Over You” di quei Velvet Underground ai quali sono stati spesso paragonati, “I Can Hear Music” delle Ronettes interpretata dalla voce da soprano di James che abbraccia il suo contrabbasso, e quella “Dreaming” di Sun Ra perfetta per la voce di Georgia, che ci augura la buonanotte mentre siamo lì che non ce ne vorremmo mai andare.
Anzi, che vorremmo guidare verso casa con loro tre seduti sul sedile posteriore.
Perchè è questo che fanno gli Yo La Tengo: ti fanno sentire sul divano del tuo salotto mentre sei lì a sentirli in concerto. E vorresti tanto che abitassero nel tuo condominio, per poterli invitare a cena stasera e chiedergli se per caso hanno voglia di suonarti qualcosa.