#10) GHOSTPOET
Shedding Skin
[Play It Again Sam]
Solitamente non ascolto hip-hop, ma Ghostpoet fa rap con un atteggiamento understated, raccontando di fallimenti e incertezze, su basi languide contaminate da elettronica e post-rock, inserendosi sulla scia tracciata qualche anno fa da Mike Skinner con The Streets. Nato a Londra da padre nigeriano e madre dominicana, il suo sound meticcio, scuro, sognante, nei momenti migliori sembra capace di descrivere un’intera metropoli.
#9) KID WAVE
Wonderlust
[Heavenly]
Certe volte vuoi solo alzare il volume e saltare per la stanza, incurante delle potenziali reazioni dei vicini del piano di sotto. Questo gruppo nato in qualche sala prove di Londra da due ragazzi svedesi, una australiana e un inglese è forse l’unico disco che mi ha spinto a farlo quest’anno. Indie rock senza pretese di cambiare la storia della musica, ma con buon gusto per le melodie e un’energia contagiosa. Per fan di: anni 90, estate, sorrisi.
#8) HAIKU SALUT
Etch and Etch Deep
[How Does It Feel to Be Loved]
Pubblicati da How Does It Feel to Be Loved, micro etichetta legata alla storica serata indiepop londinese, le Haiku Salut sono un trio femminile di folk strumentale del Derbyshire e suonano ancora più strano di quello che potrebbe sembrarvi dalla descrizione. Mescolando chitarre acustiche, fisarmoniche, drum machines e pianoforti, creano qualcosa di unico e prezioso.
#7) THE LIBERTINES
Anthems For Doomed Youth
[Universal]
Trovo quasi un miracolo che dopo tutta l’acqua (e non solo) passata sotto i ponti, i Libertines siano oggi in grado di registrare un disco come questo. Non siamo ai livelli dei tempi d’oro, ma la scintilla è ancora presente e sembra davvero che basti mettere Pete Doherty e Carl Barat un’ora nella stessa stanza per produrre canzoni che decine di gruppi si sforzano per anni di cesellare.
#6) OTHER LIVES
Rituals
[Pias]
Non so cosa dovrebbero fare gli Other Lives più di così per uscire dal limbo di best kept secret, eterno gruppo di nicchia. Dopo 10 anni di attività , tour con Radiohead e Bon Iver, questo loro terzo LP è un gioiello che potrebbe essere catalogato come Americana, ma con una personalità così definita e arrangiamenti così complessi da portarli una spanna sopra agli altri, in un territorio tutto loro.
#5) EAST INDIA YOUTH
Culture of Volume
[XL]
William Doyle, in arte East India Youth, era salito alla ribalta solo un anno fa con “Total Strife Forever”, valsogli una nomination al Mercury Prize. “Culture of Volume” si sposta in territori lievemente più orecchiabili, ma parliamo sempre di elettronica concettuale, astratta, cerebrale.
#4) CHVRCHES
Every Open Eye
[Glassnote]
Passati in poco più di un anno dalle cantine di Glasgow ai più importanti palchi del mondo, i CHVRCHES superano anche la difficilissima prova del secondo album scaricando tutta la tensione in una sola direzione: l’incredibile sicurezza che mostrano in questi nuovi 11 pezzi, rinunciando a produttori e studi di registrazione e rintanandosi nel loro seminterrato di Glasgow. Nessuno scrive synthpop meglio di loro, e loro lo sanno.
#3) SOAK
Before We Forgot How to Dream
[Rough Trade]
In questa fine d’anno in cui l’evento discografico più discusso è il ritorno di Adele, preferisco ricordare il disco di debutto di questa ragazza nordirlandese neanche ventenne. Ruvido, triste, profondo, intimo, bruciante, infinito. Una voce e una chitarra (più delicati inserti di percussioni e suoni atmosferici) che bastano a trasportarci altrove, a quando avevamo diciotto anni e non volevamo smettere di sognare.
#2) EL VY
Return To The Moon
[4AD]
Come un fulmine a ciel sereno, questo side project / supergruppo formato da Matt Berninger (The National) e Brent Knopf (Menomena / Ramona Falls) è sbucato dal nulla e dietro la facciata di semplice divertissement ha tirato fuori il meglio del talento di Berninger, libero di cazzeggiare ma anche di scrivere canzoni degne dei migliori National, e di Knopf, che toglie ogni freno alle sue intuizioni pop e si tramuta in formidabile one-man band.
#1) SUFJAN STEVENS
Carrie & Lowell
[Asthmatic Kitty]
Dopo “Illinois”, ascoltare un nuovo disco di Sufjan Stevens era diventato un compito obbligato che svolgevo con il dovuto rispetto ma archiviavo nel giro di qualche settimana. Poi è arrivato questo disco e tutto è passato in secondo piano, con i suoi perfetti super 8 di un’infanzia dai colori sbiaditi, il ricordo struggente di persone scomparse, le melodie inarrivabili, la poesia lieve di quello che si riconferma il migliore autore di una generazione. Capolavoro.