Busto in primo piano con ¬giacca di pelle, occhiali da sole e capelli straniti. Pelle bianca violacea su sfondo rosso. Il volto è di Timothèe Règnier, alias Rover, impresso sulla copertina dell’ultimo album, “Let It Glow”.
Due di due. Il secondo lavoro del cantante francese si propone come perfettamente in linea con il precedente “Rover”, album di debutto uscito nel 2012. Di entrambi gli LP sono proprie le sonorità pulite, marcate, anche eleganti, al contempo oscure e melanconiche (per confronto si pensi, su tutti, agli Interpol). Il timbro vocale, il cui falsetto ne è la chiave di lettura prima, richiama quello di Neil Hannon dei Divine Comedy, anche se la fisicità massiccia di Rover sembrerebbe stridere con questo accostamento.
L’album ha una struttura solida, che si rafforza in un lento crescendo di tensione melodica brano dopo brano, passando per il punto nodale di “Call My Name”; il culmine si ha con “Let It Glow”, per poi discendere dolcemente fino alla chiusura di “In The End”, che ha lo stesso effetto di un sipario tirato al termine di un’opera teatrale. L’uniformità melodica e strutturale sembra dipendere dalla modalità di composizione dell’album, scritto ed elaborato da Rover per nove mesi consecutivi, prevalentemente di notte, solo, “in compagnia di una drum machine, un registratore a 4 tracce e un vecchio piano”. Il risultato è, esattamente come era stato per il precedente, un album fortemente personale, in cui trova spazio il mondo esperienziale ed emozionale di Règnier e in cui la citazione dei suoi riferimenti culturali (da Bach a Bowie) si sente forte e chiara.
Se il primo album aveva sorpreso ed era stato estremamente apprezzato, questo secondo continua a piacere, perdendo però stupore e novità . Rover è riuscito a creare una propria nicchia nella quale si trova a suo agio e dalla quale estrae piccole perle ben riconoscibili nel loro ““ suo ““ genere.