Nel periodo tra le due guerre mondiali il cinema di ricerca non è esclusivo appannaggio delle avanguardie culturali che nascono e si sviluppano in Francia; un processo analogo, infatti, avviene in Germania.
Le cinematografie di questi due Paesi, peraltro, saranno le uniche, in Europa occidentale, a non soffrire di quell’involuzione che colpirà le altre produzioni nazionali, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Ciò è imputabile a diversi fattori: primi tra tutti, una crisi economica di vasta portata successiva alla Prima Guerra Mondiale e il montare dei nazionalismi.
Discorso a parte per l’Unione Sovietica, che dalla Rivoluzione d’ottobre sino alla Seconda Guerra Mondiale avvia un processo di creazione di una cinematografia nazionale che raggiungerà vette mai più eguagliate, con autori come Vertov, KuleÅ¡ov, Pudovkin, EjzenÅ¡tejn, DovÄenko.
La cinematografia sovietica e quella statunitense non soffriranno negli anni ’20 delle difficoltà post-belliche, anzi: colmeranno il vuoto progressivo venutosi a creare a causa dell’involuzione di altre cinematografie nazionali.
La Germania elaborerà una sua produzione d’avanguardia che, insieme a quella francese ad essa contemporanea, possiede come tratto distintivo un forte legame con gli avvenimenti culturali e sociali dell’epoca, interpretati con profondità e rigore stilistico.
Alcuni storici del cinema tendono ad identificare il cinema tedesco degli anni ’20 come “espressionista”, legandolo all’omonimo movimento culturale sviluppatosi proprio in Germania. In realtà , gli aspetti che legano il cinema tedesco d’avanguardia all’espressionismo sono alquanto superficiali: il cinema espressionista è, peraltro, solo una parte della produzione di quegli anni.
Molti registi tedeschi – Lubitsch, Murnau, Lang, Pabst – sono talmente diversi tra loro ed autonomi nella ricerca stilistica che mai potrebbero essere accomunabili o incasellabili in un unico genere.
Il ruolo dell’Espressionismo nella cinematografia tedesca degli anni ’20 è dovuto soprattutto al film-emblema di quella stagione creativa, “Il gabinetto del Dottor Caligari” di Robert Wiene (“Das Kabinett des Dr. Caligari”, 1919).
è soprattutto grazie all’impatto scenografico, che rappresenta una situazione onirica e allucinata, che la storiografia del cinema considera “Il gabinetto del Dottor Caligari” paradigma della produzione cinematografica espressionista anche se, a ben vedere, le innovative soluzioni scenografiche adottate da Wiene risentono dell’influsso del Cubismo e del Futurismo e verranno utilizzate dal regista in altri suoi film, “Genuine” (1920) e “Raskolnikow” (1923).
Le scenografie de “Il gabinetto del Dottor Caligari” sono opera di tre artisti del gruppo “Der Sturm”: Walter Röhring, Walter Reimann e, in particolare, Hermann Warm. La loro soluzione di trasporre la sceneggiatura originale di Carl Mayer su un piano visivo talmente accentuato da far risultare gli stessi attori alla stregua di figure appiattite e dipinte su uno sfondo dichiaratamente teatrale, contribuirà molto al successo del film e alla sua identificabilità come opera “espressionista”. Warm e Mayer saranno tra gli artefici di altre importanti opere del cinema europeo di quegli anni, collaborando con nomi come Murnau e Dreyer.
Il film di Wiene narra la storia di un personaggio, il Dottor Caligari, che commette i suoi delitti attraverso Cesare, un sonnambulo. Una volta scoperto e arrestato, Caligari riesce a evadere, rifugiandosi in un ospedale psichiatrico e diventandone il direttore; il manicomio è un microcosmo dell’orrore che contiene, nell’idea del regista, la metafora di un sistema politico retto da governanti irresponsabili e pericolosi: qualsiasi pazzo assassino, ammonisce il film, potrebbe mettersi a capo di uno Stato e deciderne le sorti.
“Il gabinetto del Dottor Caligari” registra ed elabora, con il suo stile cupo e disturbante, il clima di disfatta ed il presagio di tragedia incombente che grava, all’epoca in cui questo film viene realizzato, sulla Germania in particolare e sull’Europa intera in generale.
Il film si chiude con una soluzione narrativa che fa intuire come l’intera vicenda sia solo frutto dell’immaginazione del folle protagonista, attutendo notevolmente il forte impatto di denuncia politica alla base dell’idea iniziale. Nonostante il “rassicurante” finale, “Il gabinetto del Dottor Caligari” produce un impatto fortissimo sul pubblico cinematografico dell’epoca, sia per l’assoluta novità rappresentata dallo stile del film, sia per l’atmosfera di costante turbamento che caratterizza la narrazione e le azioni dei personaggi.
Siamo ormai lontanissimi dallo spettacolo cinematografico d’evasione: il linguaggio e lo stile che segneranno inesorabilmente il cinema d’autore europeo prendono le mosse da questi primi, pionieristici lavori.
Giova tuttavia ribadire come non sia merito della regia di Wiene, ma piuttosto, come si ricordava precedentemente, delle scenografie e dell’atmosfera a rendere riconoscibile Il gabinetto del Dottor Caligari: lo stile del regista è di per sè molto teatrale e in definitiva poco innovativo e sperimentale, sebbene nel cinema d’avanguardia di quegli anni non mancassero nè l’innovazione nè la sperimentazione (cfr. “Le avanguardie e il cinema europeo”, Blow Up #4).
L’opera di Wiene, tuttavia, secondo alcuni critici, non deve essere tanto considerata sotto l’aspetto della perizia tecnica, quanto dal rapporto tra il contenuto drammatico e la spettacolarità del dramma stesso, al di là dell’esattezza del linguaggio filmico utilizzato. “Il gabinetto del Dottor Caligari” è in definitiva, sempre secondo una parte della storiografia critica, un’opera più romantica che espressionista; in essa sono infatti ravvisabili influenze della letteratura fantastica dell’Ottocento (Hoffmann, ad esempio).
“Il gabinetto del Dottor Caligari” è invece dichiaratamente espressionista nell’aspetto della “messinscena”, ovvero nella composizione degli elementi spettacolari rispetto al testo teatrale da cui il film è tratto. Nel cinema espressionista, la “scena” costituisce il luogo principale dell’azione drammatica; per questa ragione, non ha molto senso parlare di purismo tecnico per questo genere cinematografico.
L’espressionismo cinematografico in Germania si evolve in due correnti successive, dai nomi affascinanti ed evocativi: Kammerspiel (teatro da camera) e Neue Sachlichkeit (nuovo oggettivismo), che possiedono caratteristiche estetiche e formali differenti ma legate tra loro da una medesima visione del mondo e dell’arte. Una costante di questa evoluzione è la presenza dello sceneggiatore Carl Mayer, principale ispiratore dei registi dell’epoca, dal già citato Wiene in poi.
Tuttavia, con il tempo emergono personalità che, pur legate all’influenza e all’opera di Mayer, tendono a cercare e trovare un proprio, autonomo linguaggio.
Il principale tra questi nuovi nomi è Friedrich Wilhelm Murnau, da molti storici considerato il regista più importante del cinema tedesco.
Nato in Westfalia da un’agiata famiglia di origine svedese (il suo vero nome era F. W. Plumpe), fin da bambino sviluppa una notevole predisposizione per la recitazione e la regia.
Gli studi di lettere e filosofia a Heidelberg e Berlino gli assicurano una solida e raffinata formazione culturale che, unita alla consapevolezza degli orrori della prima guerra mondiale sperimentati in prima persona, gli consentirà di sviluppare un discorso registico assolutamente originale e personale.
A differenza di quanto sostenevano, ad esempio, i surrealisti (cfr “Le avanguardie e il cinema europeo”, Blow Up #4) per Murnau la forma, il rigore stilistico e la ricerca di un linguaggio specificamente filmico costruiscono le basi imprescindibili dell’opera cinematografica, anche quando si tratta di lavori in cui l’aspetto commerciale prevale su quello artistico, come alcuni film realizzati nel periodo hollywoodiano.
Per brevità , dovendo trattare anche di due altri importanti autori del cinema tedesco tra le due guerre, Fritz Lang e Ernst Lubitsch, ci limiteremo a descrivere le opere principali di Murnau, accennando soltanto al periodo meno fecondo e più tragico della sua vita, quello trascorso in California e conclusosi con una morte violenta e prematura.
La formazione artistico-cinematografica di Murnau è dichiaratamente espressionista ed è segnatamente influenzata dalla sua formazione letterario-filosofica; la sua cultura non è tuttavia accademica, ma in continuo divenire grazie al lavoro di ricerca di senso nell’interpretazione della realtà a lui contemporanea.
Tra il 1919 e il 1921 Murnau realizza una serie di promettenti pellicole d’esordio (ne citeremo qui solo una parte) dalle quali già si intuisce la ricerca artistica ed espressiva che ne caratterizzerà la poetica, anche perchè il regista si avvale del lavoro del già citato Carl Mayer: “Der Knabe im Blau” (“Il ragazzo in blu”, 1919), “Satanas” (“Satana”, 1919), “Der Bucklige und die Tänzerin” (“Il gobbo e la ballerina”, 1920).
Limitandoci, come accennato, ai lavori più significativi di Murnau, il suo film espressionista per eccellenza è sicuramente “Nosferatu, eine Symphonie des Grauens” (letteralmente: “Nosferatu, una sinfonia dell’orrore”, titolo molto più intenso e affascinante della versione italiana “Nosferatu il vampiro”).
“Nosferatu” è un’opera molto diversa da “Il gabinetto del Dottor Caligari” di Wiene: in quest’ultimo film, l’effetto drammatico era ottenuto con la scenografia e la teatralità ; in “Nosferatu”, invece, Murnau ricorre a mezzi puramente “cinematografici”. Aspetti poetici, formali, tecnici si uniscono fino a fondersi nella produzione artistica di Murnau, e in Nosferatu in particolare, donando al film una profondità e una compiutezza difficilmente ravvisabili nell’espressionismo à la mode di Wiene o di altri autori.
Tratto dal celebre “Dracula” di Bram Stoker, romanzo che ha conosciuto un gran numero di adattamenti cinematografici successivi (Herzog su tutti, Coppola anni dopo), Nosferatu parla di un eroe condannato alla solitudine.
Un’analisi che non tenga conto solo delle componenti “orrorifiche” del film non potrà non evidenziare una grande eleganza formale, inquadrature ricercate e un uso del bianco e nero di assoluta avanguardia, nonchè una commistione di elementi fantastici, romantici e allucinati.
Il romanzo di Stoker offre solo uno spunto che Murnau utilizza per costruire il suo principe delle tenebre solitario e malinconico.
Il conte vampiro Orlok si aggira senza pace tra le stanze del suo castello, semina il terrore nel villaggio ai piedi del maniero, scompare all’alba per nutrirsi del sangue di una donna della quale si è innamorato.
Nosferatu è un eroe romantico e decadente, dalla figura emaciata e dalla postura inquieta; l’espressione del suo volto esprime tormento e ricerca d’aiuto, più che malvagità .
Su questo film aleggia un’aura di leggenda: si narra che l’interprete principale, Max Schreck, (il cui nome tradotto significa, con sinistra ironia, “Massimo Spavento”) fosse in realtà Murnau reso irriconoscibile dal trucco di scena; secondo un’altra versione, pare che Murnau si sia recato prima delle riprese nei Carpazi alla ricerca di un vero vampiro. Le voci che hanno alimentato la leggenda sul film “Nosferatu Il Vampiro” si sono talmente sedimentate nell’immaginario cinematografico che il regista statunitense Edmund Elias Merhige, nel film L’ombra del vampiro (2000), interpretato da John Malkovich (Murnau) e Willem Defoe (Schreck), abbraccia l’ipotesi secondo la quale Schreck stesso fosse un vero vampiro e non un attore.
“In Das Phantom” (“Il fantasma”, 1922), il tema della vertigine dell’isolamento compare ugualmente, ed è rappresentato questa volta dalla storia di un oscuro borghese, Lorenz Lubota, che si innamora di una donna nella quale si è imbattuto per puro caso, iniziando a inseguirla come fosse un fantasma. A causa di questa ossessione Lorenz manda a rotoli la propria vita, intraprendendo anche una relazione con una donna fisicamente identica alla creatura dei suoi sogni e precipitando in una spirale di debiti, furti e prigionia. Il film si conclude positivamente, con Lorenz “salvato” da Maria, l’unica donna realmente e fino a quel momento segretamente innamorata di lui, che lo attenderà all’uscita dalla prigione per iniziare una nuova vita insieme.
“Der Letzte Mann” (letteralmente “L’ultimo uomo”, in Italia noto come “L’ultima risata”, 1924) è infine considerato il vero capolavoro di Murnau. La tecnica di regia e la costruzione del film presentano spunti di assoluta modernità (le scene iniziali che si svolgono nell’hotel in cui il protagonista lavora, ad esempio).
La storia narrata nel film è quella di un mite portiere d’hotel, fierissimo del proprio lavoro e della propria uniforme e padre amorevole di una ragazza in procinto di sposarsi. Rispettato per la sua posizione professionale dagli abitanti del caseggiato popolare in cui vive e ammirato per la sua uniforme, l’uomo cade in disgrazia nel momento in cui viene degradato a guardiano delle toilettes dell’hotel a causa di un piccola mancanza sul lavoro.
Tutti i conoscenti gli voltano le spalle, la figlia amatissima mette in discussione il suo affetto per lui, le vicine pettegole sembra godano nel dileggiarlo appena scoprono la sua retrocessione professionale, che il poveraccio tenta disperatamente di nascondere.
Anche “Der Letzte Mann” ha un finale ottimistico, probabilmente imposto dalla produzione; ciò che resta di questo film, al di là dell’altissimo livello di realizzazione formale, è la riflessione sulla penetrazione, nei tedeschi dell’epoca, dell’ideologia autoritaria e sulla spietatezza nei confronti del singolo da parte di una società attenta solo all’apparenza.
I tre film di Murnau qui trattati sono accomunati dal tema dell’isolamento; Murnau stesso viveva questa condizione in quanto omosessuale.
All’epoca l’omosessualità era fonte, anche in un ambiente artistico apparentemente più aperto, di infiniti problemi. L’adozione del cognome d’arte da parte del regista sembra sia dovuta ad una scelta di rottura con la propria famiglia, che per prima non accettava le scelte sessuali del figlio.
La morte violenta in California di Murnau sembra concludere la storia di quest’uomo che attraverso l’arte e la ricerca del linguaggio cinematografico perfetto ha espresso coraggio, incisività e disperazione.
Il secondo autore che caratterizza il cinema tedesco tra le due guerre è Fritz Lang.
Viennese di nascita, figlio di un architetto, studia a sua volta pittura e architettura a Vienna, Monaco e Parigi.
La formazione filosofico-letteraria influenza la costruzione dello stile cinematografico di Murnau, allo stesso modo in cui lo studio delle arti figurative e dell’architettura segna l’intero percorso stilistico di Lang.
La poetica di Fritz Lang è in perenne oscillazione tra la preponderanza di elementi scenografici e di composizione dell’immagine e di elementi narrativi e drammatici. Lo stile raffinato e quasi astratto, ben visibile in opere come “Die Nibelungen” (“I Nibelunghi”, 1923-24) e Metropolis (1926), addirittura piega la narrazione ai ritmi scenografici e coreografici (si vedano ad esempio le scene di massa in entrambi i film).
L’aspetto scenografico non nasconde nè soverchia mai quello politico e narrativo, ma è anzi ad essi complementare: è facilmente individuabile in qualsiasi film del regista austriaco come la tensione dell’azione si rapporti in modo adeguatamente bilanciato alla caratterizzazione dei personaggi e alla narrazione dei fatti.
A Lang interessa analizzare e raccontare la posizione dell’uomo nella società tedesca sconvolta e rimescolata dagli avvenimenti bellici e dalla disastrosa sconfitta subita nella Prima Guerra Mondiale.
Le vicende personali di Lang rispecchiano questa sua visione critica e rigorosa dell’arte e della narrazione cinematografica: dopo l’avvento di Hitler il regista espatrierà negli Stati Uniti, nonostante il Ministro della Propaganda del Reich, Goebbels, gli avesse offerto la direzione del cinema tedesco perchè affascinato dai temi epici e nazionalisti de I Nibelunghi e dal messaggio di unità sociale di Metropolis (che in realtà era un film di denuncia contro l’alienazione della società industriale capitalistica).
Molta critica a posteriori ha superficialmente attribuito ai film di Lang significati che non possedevano, riferendoli ad accadimenti storici non ancora avvenuti all’epoca in cui questi film uscivano. La grandezza di Lang risiede proprio nell’aver dato conto di quell’atmosfera da incubo che precedeva l’avvento del nazifascismo in Germania, poco prima che tutto accadesse: la paura, la diffidenza, la delazione, l’assassinio. Si pensi alla cappa di piombo che si percepisce durante la visione di “M” (“Il mostro di Dà¼sseldorf”, 1931). In questo film, una cupa storia di pedofilia, il meccanismo narrativo è costruito in modo da evidenziare l’ambiguità della vicenda, che rispecchia l’ambivalenza e la contraddittorietà dell’esistenza umana. Le uniche vittime certe nel film sono i bambini; lo spettatore è trascinato in una spirale all’interno della quale, seppur con ripugnanza e rifiuto, si trova costretto a guardare in faccia un criminale che ha un volto qualunque e per di più con un’espressione quasi sofferente, come se volesse disperatamente fuggire dal suo ruolo. I criminali di Lang possono rappresentare ciascuno dei suoi contemporanei, e d’altra parte i carnefici non sono da meno: tutti sono immersi in quel clima di tempesta incombente, in cui ciascuno percepisce che la danza sull’orlo dell’abisso prima o poi cesserà , trascinando il mondo fino ad allora conosciuto in una catastrofe che lo muterà per sempre.
Il messaggio politico di Lang non perde mai razionalità e lucidità , e queste caratteristiche sono ravvisabili anche nella produzione cinematografica del periodo statunitense. I film americani di Lang (ad esempio La donna del ritratto, 1944; Il grande caldo, 1953; La bestia umana, 1954) sono ugualmente mossi da un acuto senso critico nei confronti della società statunitense, che sotto una patina di democrazia tollera linciaggi, intolleranza, sopraffazione. Come molti registi europei rifugiatisi negli USA a causa delle persecuzioni nazifasciste, Lang contribuisce con la sua vasta e solida cultura alla cinematografia di un Paese dedito soprattutto alla concezione del cinema come intrattenimento di massa.
Nonostante la produzione americana di Lang non raggiunga i livelli delle opere realizzate in Germania, esiste una chiara continuità di contenuti tra i due periodi: il concetto di “colpevolezza relativa” ricorre costantemente, fornendo continui spunti sui risvolti feroci e perversi della cosiddetta rispettabilità borghese.
Il terzo e ultimo autore è Ernst Lubitsch, il più “leggero” dei tre, ma solo in apparenza.
Come Murnau, Lang e molti altri registi, attori e intellettuali tedeschi ed europei, anche Lubitsch si trasferisce negli Stati Uniti quando il montare del nazifascismo in Germania spegne qualsiasi voce critica e impedisce ogni alternativa alla “cultura” di regime.
Per Lubitsch più che per altri registi europei Hollywood rappresenta il terreno ideale per la realizzazione della sua cinematografia: uomo e autore ambizioso, ama realizzare film dalle scenografie sofisticate e costose, ingaggiando grandi attori (Greta Garbo sarà una mirabile Ninotchka nell’omonimo film del 1939).
Mentre l’Europa conosce il momento più buio della sua storia, la California è lo scenario ideale per lo scintillante tocco registico di Lubitsch: il Lubitsch touch, lo stile spensierato, ironico e inimitabile del regista tedesco caratterizzerà tutta la sua produzione hollywoodiana.
Questa leggerezza, in realtà , è solo apparente: dietro i personaggi brillanti e mondani dei film di Lubitsch scorre un rivolo silenzioso di malinconia. Il successo, la ricchezza, i dialoghi scoppiettanti rappresentano null’altro che un antidoto alla solitudine e alla constatazione dei fallimenti esistenziali. Un esempio può essere il protagonista de “Il Cielo Può Attendere” (“Heaven Can Wait”, 1943), un uomo dalla fama di brillante dongiovanni che, subito dopo morto, ripercorre la propria vita in attesa di essere “trasferito” all’Inferno.
Berlinese, Lubitsch ha una formazione eminentemente teatrale; la sua carriera inizia come attore con Max Reinhardt, e fin dall’inizio la sua carriera regista e, più in generale, la sua visione del mondo e dell’arte risentiranno dell’impostazione teatrale iniziale. Il valore della messinscena, infatti, rappresenterà una costante nel suo lavoro cinematografico, ma rivestirà un significato completamente diverso rispetto a quanto accade per gli autori strettamente espressionisti.
Tra il 1919 e il 1921 Lubitsch realizza alcuni film satirici dallo stile brillante e cabarettistico che colgono con ironia certi risvolti allucinati di una Germania narrata con ben altra cupezza e gravità dagli autori trattati in precedenza: “Die Austernprinzessin” (“La principessa delle ostriche”, 1919), “Die Puppe” (“La bambola di carne”, 1919), “Die Bergkatze” (“Lo scoiattolo”, 1921).
La predilezione per il genere commedia e la vocazione internazionale della sua arte faciliteranno a Lubitsch, più che ad altri registi tedeschi ed europei, l’ingresso nel cinema hollywoodiano. Proprio a Hollywood sarà coniata l’espressione The Lubitsch touch, ricordata più sopra, che definisce il suo stile elegante, ironico e dall’impareggiabile leggerezza. Il tocco di Lubitsch sarà ammirato e imitato da grandi autori della commedia sofisticata americana, come Otto Preminger e Billy Wilder, entrambi suoi collaboratori.
L’avvento del sonoro non comprometterà la qualità del cinema di Lubitsch: degli anni ’30 sono alcune delle commedie più raffinate e riuscite, come la già citata “Ninotchka” e la splendida “Mancia Competente” (“Trouble in Paradise”, 1932).
Molto si è discusso rispetto all’ “astoricità ” e al carattere esclusivamente affabulatorio delle situazioni narrate nei suoi film. Se paragonato ad altri autori tedeschi a lui contemporanei, sicuramente Lubitsch non è interessato ad una visione politica del linguaggio e dei contenuti cinematografici. La sua è una visione prettamente individualista ed intimista: in realtà il suo sguardo edonista, libertino e sfaccettato restituisce un quadro della propria epoca che, sebbene filtrato dall’ironia, non è meno complesso e amaro della visione di altri autori a lui contemporanei.
Blow Up è una rubrica a cadenza mensile che si propone di raccontare i grandi registi del cinema occidentale, a partire dall’era del Muto. Le autrici e gli autori sono raccontati con un occhio alla Storia in cui sono immersi e, di conseguenza, al contesto umano, sociale e politico che ha condotto alla genesi dei singoli linguaggi, stili ed estetica cinematografica.