Di notte e nei weekend, un gruppo di ingegneri lavora senza sosta in un garage per mettere a punto un macchinario che ha come obiettivo quello di correggere l’errore umano.
Tuttavia due di loro Aaron (Shane Carruth, anche regista, sceneggiatore e produttore del film) e Abe (David Sullivan) si rendono conto che quanto realizzato va aldilà delle loro aspettative, sconfinando addirittura nell’inimmaginabile.
Grazie infatti ad un fungo sviluppatosi in poche ore, a fronte dei 5 o 6 anni necessari, il misterioso dispositivo si rivela essere una macchina del tempo.
Visto potenziale dell’invenzione, i due decidono di escludere gli altri, sfruttando i viaggi temporali per arricchirsi con fraudolenti investimenti in borsa. Dopo poco però, il rapporto di fiducia tra Aaron e Abe degenera in una spirale che li porterà a non controllare più l’utilizzo del macchinario, oramai strumento opportunistico del loro giocare a cambiare il corso degli eventi.
Oramai compiuta la deflagrazione totale del continuum spazio temporale, i due si trovano costretti a vivere in una dimensione parallela provando a ricomporre cronologicamente i frammenti delle proprie esistenze.
Vincitore del Gran Premio della giuria per il miglior film drammatico al Sundance film festival del 2004, l’opera prima di Shane Carruth non è solo un manuale su come fare un film indipendente che non scenda ad alcun compromesso; tanto meno con lo spettatore (un paio di visioni sono raccomandabili).
Ma è anche un esempio folgorante di quanto sia in realtà trascurabile la disponibilità di milioni di dollari per assicurare la buona riuscita di un film di fantascienza, essendo invece premiante e decisiva l’idea di fondo. Geniale nel montaggio e originalissima nella messa in scena, la rappresentazione del viaggio nel tempo è senza precedenti, la pellicola è costata infatti solo 7.000 dollari assurgendo in pochi anni allo status di piccolo cult.
Wide Screen: come in pittura si definiscono colori primari quelli che non si possono ottenere dalla commistione di altri colori, ma dalla cui combinazionesi può ricavare ogni altro colore; in questa rubrica parleremo di film unici e fondamentali, che costituiscono la matrice perduta della settima arte.