Quando si è cominciato a parlare di un album postumo di Jeff Buckley, sembrava si sarebbe trattato della consueta azione di sciacallaggio sulle ceneri del prodotto perfetto: il musicista-morto-troppo-giovane, un brand che nell’industria discografica perde raramente efficacia. Di fatto, il materiale confluito in “You and I” esce dagli archivi della Columbia senza grosse sorprese: ad oggi, delle dieci tracce, per lo più registrate dal cantante agli Shelter Island Sound Studio nel 1993, gli unici inediti assoluti sono rappresentati dalle demo di “Grace” e da “Dream of You and I”; il resto è già noto da varie raccolte live successive alla morte di Buckley, annegato in un ramo del Mississipi River il 29 maggio 1997, quand’era ancora poco più che trentenne.
Tuttavia “You and I” ha una ragion d’essere che prescinde di gran lunga dalla (scarsa) novità del repertorio. D’altra parte, si parla dell’artista che con la sua cover di “Hallelujah” è stato capace di competere, se non di oscurare, l’originale del supremo Leonard Cohen. Le sue capacità di interprete tanto quanto quelle di autore sono parte della leggenda che sopravvive a Buckley nel corso degli anni.
La raccolta ricostruisce un momento preciso del percorso formativo del musicista: Buckley nell’atto di diventare Buckley. Questi pezzi ruvidi e non rifiniti sono la materia grezza alla base del talento che avrebbe preso la forma unica e personale dell’album di esordio “Grace” (1994). Nello specifico, la scelta dei brani coverizzati mappa un preciso sistema di modelli di riferimento: al centro, lo studio della chitarra degli Smiths (“The Boy With The Thorn In His Side”, “I Know It’s Over”), dei Led Zeppelin (“Nigth Flight”, poco più che una jam session), degli Sly & The Family Stone (“Everyday People”); mentre la voce si allena sull’estensione soul di “Don’t Let the Sun Catch You Cryin”, sul lamento dolce di “Calling You”.
Tutti questi pezzi acquisiscono valore nel quadro di insieme. Forse, però, solo “Dream of You and I” ha un’unicità specifica e individuale. Jeff racconta di questa “musica che ha visto in sogno”, la chitarra accenna un giro leggero che ha davvero la consistenza di materiale onirico. Accompagna la voce che descrive una canzone che non vedrà mai la luce, una canzone su un amore proprietario, soffocante, l’amore di qualcuno che pretende il giorno e la notte, la vita intera dell’amato. Nella registrazione c’è un senso di presenza/assenza straordinariamente potente; c’è tutto quello che avrebbe potuto essere, quella canzone, sì, ma soprattutto quel cantante agli inizi, destinato a lasciare un album solo per poi morire con la fretta fatale delle falene.
Ed è in definitiva questo a salvare davvero un’operazione come “You and I”: la capacità di manifestare il concetto astratto di mancanza senza provarci troppo, in maniera mai stucchevolmente celebrativa. Un tributo che suona, tutto sommato, onesto.