Una persona che si innamora memorizza tutti i particolari che precedono e che seguono il momento in cui scocca la scintilla.
Così, io ricordo benissimo la sera in cui conobbi la musica di James Blake.
Ricordo che era Aprile, era il 2013, ed io ero sul lungomare deserto a provare il Penny di una mia amica.
Ricordo che gli altri ridevano della mia goffaggine e di come le mie Van’s dessero la fallace impressione che sapessi starci su quello skate.
Ricordo che tornato a casa mi fermai davanti al computer e, aprendo Spotify, decisi di cercare quell’artista che mi ero appuntato.
Parte “Overgrown” ed io mi sento strano. Ferito da quella voce lamentosa e da quella musica destrutturante.
Mi si apre un mondo nuovo.
Tre anni dopo, conosco i primi due album del ragazzo britannico a memoria.
Scorro distrattamente la home di Facebook dal mio letto. E’ un bel giorno di Febbraio in cui mi sento particolarmente appagato, avendo dato l’ultimo esame veramente duro della mia carriera universitaria.
Dal nulla, tra le notizie, vedo che c’è una nuova canzone di James Blake.
Con foga apro Youtube e parte “Modern Soul”.
Sento le note piene del suo pianoforte e mentre i muscoli si distendono lo stomaco comincia a stringersi.
Si apre il mio percorso di avvicinamento a “The Colour is Anything” nella maniera più conservativa possibile.
Un brano che ripropone tutte le caratteristiche identificanti del soul di Blake: la melodia scarna, in cui i vuoti si completano con il piano e la voce potente, sofferente.
Il tutto mischiato in maniera indissolubile, si ingrossa e prende coraggio. Si gonfia in un climax di synth.
Il segreto del successo dell’artista inglese sta proprio nella ripetizione di una ricetta vincente: fin da “The Wilhelm Scream”, passando per “Retrograde” e “To the Last”, ed arrivando oggi a “Modern Soul” ogni brano ha sempre le proprie fondamenta sulla parola, che si fa mantra, ripetitiva e rassicurante, mentre l’atmosfera sale in un crescendo melodico ed emozionale che va a graffiare l’animo del fruitore.
A ben vedere questo è il tema centrale dell’album intero.
Consolidare.
A partire dall’art-work che pur rimandando al James Blake di “Overgrown”, che cammina con le mani in tasca, mentre intorno la natura arida ed inospitale è incorniciata da un orizzonte tagliente, oggi acquisisce vita nuova attraverso la matita di Quentin Blake.
Parte la prima traccia, “Radio Silence”, e ritornano i temi fondanti del soul-step spigoloso e inquieto del musicista.
Un viaggio circolare che si apre con un lamento sussurrato cede il passo ad una percussione marziale ed al solito piano, per poi inevitabilmente salire e richiudersi di nuovo nello stesso lamento.
Sulla melodia le stesse parole che ritornano e che vanno a scontrarsi sullo stesso muro.
“I can’t believe this, you don’t wanna see me. I don’t know how you feel”
“But in my heart, there is a radio silence going on.”
Ce lo ricorda dalle sue prime parole che il suo è un universo fondato sui rimpianti e gli amori spezzati.
In cui il protagonista è continuamente in viaggio, sia fisicamente che interiormente.
Alla ricerca di una forza sufficiente a spostare l’oggetto inamovibile che lo spinge verso il fondo.
Un debole, che supplica, prega un gigante da cui è spaventato e di cui è innamorato.
Questa è la storia che James Blake racconta in ogni canzone.
Come in “Love Me in Whatever Way”, in cui già nel titolo è cristallizzata la propria inettitudine nell’imporre a se stesso ed all’altro una propria individualità .
“Tell me where I have to go and then love me there.”
Ed in chiusura il solito sussurro che si allontana, subito dopo l’esplosione, a segnalare che il cammino non è ancora giunto ad una conclusione.
Per quanto, tendenzialmente l’album riproponga le solite tematiche e le solite atmosfere ci sono comunque alcune variazioni che, pur inserendosi coerentemente all’interno del lavoro, spiccano per la propria singolarità .
“Timeless” per esempio, ripropone la sofferenza e la cupezza su una base melodica molto più ingombrante e sospinta.
“Choose Me”, parte e subito c’è un coro abbagliante che stranisce come una risata nel bel mezzo di un pianto.
Senza soluzione di continuità poi parte un urlo, l’ennesimo lamento, che questa volta non è flebile ma bello pieno, quasi solenne e si ripete in un loop su cui il brano decolla.
“Always”, addirittura è una canzone quasi felice, sia nei suoni, sia nelle voci, sia nelle parole.
Una boccata di aria fresca che arriva dopo quindici brani di sforzi e pugni stretti.
“It’s a sweet world, always”.
Chi mai avrebbe detto di poter sentire queste parole uscire dalla bocca di James Blake?
A ribadire il concetto che questo album non inventa nulla ma migliora molto abbiamo la collaborazione con Bon Iver.
E se “Fall Creek Boys Choir” era una canzone senza troppe pretese che si reggeva solo sull’intreccio di voci di Blake e Vernon, al contrario “I Need a Forest” è un brano miracoloso in cui riescono a convivere perfettamente le anime dei due progetti musicali: se da un lato abbiamo l’atmosfera primitiva, immacolata ed inebriante del gruppo statunitense, dall’altro abbiamo l’emotività e la empatia sintetica dell’artista inglese e tutto scorre perfettamente, verso una terza via che appartiene ad entrambi ma, contemporaneamente, è inedita ed autosufficiente.
Arrivo in fondo a “The Colour is Anything” e sono stremato e mi tornano in mente degli studenti di medicina che, qualche settimana fa , parlavano di quello che avevano fatto a lezione mentre tornavano a casa come me, nello stesso vagone di Regionale.
Parlavano di somatizzare disturbi psichici.
Ed io ho pensato che era una bel verbo e che mi sarebbe piaciuto inserirlo in una frase.
Ecco, la musica di James Blake si somatizza: colpisce così a fondo e nel profondo da farti male fisicamente.
L’inquietudine e la ricerca identitaria che caratterizza la nostra generazione è incarnata in pieno in questa melodia ed in questi silenzi.
Così come il suo piano, le nostre pulsioni sono destrutturate e destrutturanti.
Penso che potrei citare altri brani ed analizzare altri spunti compositivi offerti dall’album ma mi chiedo a che pro.
Quello che importa è qua sopra e sono l’emozioni di un LP che pulsa di vita prova.
“The Colour in Anything”, in definitiva, è la summa di tutto quello che incarna il musicista britannico. Un viaggio in costruzione, in cui ogni passo è incerto e tremolante.
Ho sottomesso una generazione. Questa sarà la mia eredità .
James Blake lo dice con il sorriso sulle labbra ma mica lo so se scherza veramente.