L’ultimo disco di Vinicio Capossela è un viaggio nella tradizione più autentica e misconosciuta del Sud Italia, un viaggio nella terra dei lavoratori, delle donne, nei luoghi della memoria e della mente. L’opera si chiama “Canzoni Della Cupa” ed è il frutto di un lavoro durato, tra intervalli più o meno regolari, ben 13 anni. Un disco diverso rispetto sia alla schiettezza di “All’Una E Trentacinque Circa”, “Modì” e “Camera A Sud” che all’estro niente affatto manierista de “Il Ballo Di San Vito”. In questa ultima immensa fatica ci sono semmai richiami, in alcuni passaggi davvero diretti, alle mitologie di “Ovunque Proteggi” e “Marinai, Profeti E Balene” e al desiderio di riportare alla luce la tradizione già presente in “Rebetiko Gymnastas”. Al netto dei significati che il cantautore originario di Hannover gli ha conferito, “Canzoni Della Cupa” è un omaggio alla terra del padre, Vito, le montagne aride e scontrose dell’Alta Irpinia con tutto il loro bagaglio di persone e di luoghi.
Il disco è uscito per la Warner Music il 6 maggio scorso ed è un album doppio di 28 canzoni. La versione in vinile consta di ben quattro LP e subito dopo l’uscita è stato messo negli scaffali alla modica cifra di 99,99 euro (sigh”…). L’album è concettualmente diviso in due parti, “Polvere” e “Ombra”, sebbene in entrambe ci siano richiami e mescolamenti. A voler semplificare al massimo, si può dire che la prima parte è l’omaggio più diretto a una certa tradizione musicale del Sud Italia, fatta di canzoni popolari, ballate e sonate. Il riferimento maggiore è il compianto Matteo Salvatore. Nella seconda parte, più ancestrale e di fantasia, c’è l’imprinting probabilmente più originale dell’estro irrefrenabile (e sovente di maniera) di Capossela. Diversi i musicisti italiani che hanno contribuito alla realizzazione di “Canzoni Della Cupa”, da Antonio Infatino e Enza Pagliara, alla Banda Della Posta e Giovanna Marini, Francesco Loccisano e Giovannangelo De Gennaro. Tanti però anche i contributi stranieri come Flaco Jimenez, Calexico, Howe Gelb e David Hidalgo dei Los Lobos. Un film, “Il Paese Dei Coppoloni”, è il contraltare fatto di immagini al discorso sonoro (il disco) e al discorso della parola scritta (l’omonimo romanzo, uscito per Feltrinelli nell’aprile del 2015).
“Canzoni Della Cupa” si apre con una canzone della tradizione salentina, “Femmine”. Protagoniste le tabacchine e il duro lavoro nei campi per una ballata dark dedicata a voi “”…che lavorate sempre e non buscate pane”…”. “Femmine” è il primo pezzo registrato dell’album, per il cui arrangiamento Capossela si è ispirato ai canti di lavoro registrati dallo studioso Alan Lomax negli Stati Uniti. Un pezzo che restituisce subito un’atmosfera ben precisa, di terra arsa dal sole rovente e di una vita tutt’altro che semplice. Anche il secondo brano, “Il Lamento Dei Mendicanti”, sull’egoismo dei ricchi e la solitudine dei poveri, contribuisce a intensificare i colori dell’universo di Capossela. Il tema del lavoro, del sudore, della fatica e del conseguente e necessario riposo torna in “Lu Furastiero”, un adattamento di “Lu Furastiero Dorme La Notte Sull’Aia”, capolavoro senza tempo di Matteo Salvatore che con una melodia dolce e dei versi semplici ed essenziali sa condensare il dolore secolare di un popolo. “Nachecici” è un altro omaggio a Matteo Salvatore (adattamento de “I Maccheroni”, con Francesco Antonelli e Adriano Fascetti), così come “Rapatapumpa” (“I Proverbi Paesani”, con Otello Profazio e Adriano Fascetti) e la splendida “La Notte è Bella Da Soli”, nella quale appaiono i primi indizi licantropici che affioreranno numerosi nella seconda parte.
“Canzoni Della Cupa” è ricco di riferimenti alle figure femminili, dalle tabacchine di “Femmine” alla sensualità de “La Padrona Mia”, passando per “Faccia Di Corno”, “Franceschina La Calitrana”, “Dagarola Del Carpato” (bizzarra canzone della tradizione calitrana su un amore appassionato e senza futuro), “Pettarossa” (la puttanazza, sempre della tradizione di Calitri) e “Il Lutto Della Sposa” (voce e pianoforte sul triangolo madre-figlia-moglie, che però è nella seconda parte). «Questo è un disco che trae origine dalla terra generatrice che è il simbolo femminile per eccellenza», ha detto in un’intervista Capossela. Non a caso sono diverse le voci femminili che compaiono nel disco, da Giovanna Marini a Enza Pagliara, fino ai cori di alcune anziane calitrane registrate in loco.
Dalla polvere della prima parte si passa all’ombra della seconda. Il passaggio è concettuale ma anche “visivo”. I luoghi ora sono più immaginari che reali, frutto più della superstizione che della storia cronachistica. La luce si affievolisce e la lente di ingrandimento indugia sugli animali (le creature della Cupa appunto) che, di notte, si muovono negli anfratti della natura selvaggia. L’intento di Capossela è quello di esorcizzare un presente in cui l’immaginazione sembra completamente anestetizzata. Da qui, il tentativo di rievocare figure fantastiche, mostruosità dimenticate e animali bislacchi. Immagini surreali che possono avere un ruolo terapeutico.
è perfettamente funzionale a questa logica “Il Pumminale”, il licantropo che dà il titolo alla canzone originale forse più suggestiva dell’album, che non a caso è il primo singolo estratto con un bel video di Lech Kowalski. Oltre a “Componidori”, unico brano che non proviene dalla tradizione del Sud Italia ma dalla Sardegna, la seconda parte dell’album è ricca di piccole gemme come “Scorza Di Mulo” (sorta di blues con gemiti animali in sottofondo), “Le Creature Della Cupa” (il bestiario immaginifico dell’Alta Irpinia), “La Notte Di San Giovanni” (anche qui atmosfera country-blues per un testo abbastanza ermetico); poi “Il Bene Mio” (stupenda, di Matteo Salvatore), “Maddalena La Castellana (dissonante e su un tappeto di cornamuse), “Lo Sposalizio Di Malo Servizio” (matrimonio balcanico pantagruelico che fa tanto pensare alle atmosfere à la Goran Bregovic) e “Il Treno”, che è un po’ un tornare alla polvere della prima parte, tra masciare e masserie, un treno che è come un uccello nero che si prende tutti i paesani per portarseli via ( «lo strumento feroce del progresso, che doveva servire per collegare il Sud al resto del mondo e che invece è servito per svuotare tutti i paesi »), c’è un ritornello voluttuoso “quello che sono, mi porto addosso”…”, poi quattro minuti di silenzio e un’altra canzone popolare, l’ennesima a chiudere un disco sicuramente molto denso ma lontano dai vertici artistici raggiunti dall’eclettico e mai scontato cantautore italiano.
Photo: Sven Mandel / CC BY-SA