La nostalgia degli anni ’80 è sempre lì, al suo posto. Resiste all’usura, è ancora il motore in grado di trascinare sotto a un palco diverse centinaia di cuori ogni volta che se ne presenti l’occasione. Ne ho avuto la riprova, ennesima, in una domenica di inizio Settembre, dove la fine dell’estate meteorologica londinese (a patto che a queste latitudini si possa davvero parlare di estate) coincide con un crepuscolo di luci, colori e odori che nemmeno un film potrebbe descrivere.
La O2 Academy di Islington è una piccola perla nel cuore di Londra nord. Una di quelle venue un po’ oscure, dove basta davvero poco a far addensare l’aria, dove lo stage è così vicino da poter quasi toccare con mano le vibrazioni di una band storica come The Jesus and Mary Chain. I fratelli Reid hanno sempre affascinato. Vuoi per la loro storia tormentata e quell’aria da bad boys – fatta di LSD, risse e concerti al fulmicotone divenuti icona di una turbolenta era ormai passata. Vuoi per aver saputo far convogliare in un suono originale l’esperienza noise rock marchiata a fuoco con sonorità spiccatamente punk, shoegaze, oppure talvolta più orecchiabili e radiofoniche. Pleonastico è constatare come, anche a distanza di tre decadi, il debutto “Psychocandy” (1985) rappresenti ancora un disco fondamentale per la storia dell’indie rock. Quello portato agli estremi, con un suono acido e ritmiche ossessive e mai banali.
Rende giustizia a The Jesus and Mary Chain, questa piccola venue di Islington. “April Skies”, “Head On”, “Far Gone and Out” squarciano l’atmosfera, già pregna di emozioni e di ricordi. Ci sono persone di tutte le età , e la cosa non mi sorprende. Così come non mi lascia del tutto indifferente il fatto che al fianco di ragazzini con lo sguardo stralunato vi siano padri e madri con gli occhi ancor più lucidi, memori di un passato da far rivivere per una sera.
Jim Reid sembra in forma, indossa una giacca nera sopra una t-shirt dei The Modern Lovers (band proto-punk americana attiva negli anni ’70 e “’80). Sorseggia acqua naturale, poi annuncia che “finalmente il nuovo album sta per vedere la luce, così potrete tornare a vederci dal vivo”. Eccola qui, la scintilla, perchè il resto della serata scivola via come un lungo flashback, in una setlist che racconta la storia di The Jesus and Mary Chain, senza fronzoli nè patemi. Mi rimangono nel cuore “Teenage Lust”, “Cracking Up”, i delay sparsi in “Some Candy Talking”. La Academy diventa una polveriera e sembra sempre sul punto di esplodere. Succede tutto nel finale, quando “Halfway To Crazy” anticipa la profana “Reverence”, dove sembra spegnersi la luce, prima di una temporanea uscita di scena che accresce ulteriormente la tensione.
“Just Like Honey”, “Never Understand”, “The Living End” innescano un’onda che proprio lì – sotto al palco – si tramuta in un pogo senza più regole. Saltano tutti gli equilibri, un po’ come dev’essere stato una trentina d’anni fa, quando i fratelli Reid erano poco più che ragazzini e portavano scompiglio distruggendo palchi. C’è il tempo per “Taste of Cindy”, prima di “It’s So Hard”, che chiude 75 minuti di oscura adrenalina con chitarre in feedback e un ossessivo outro.
Qualcuno li definisce “alternative rock heroes” e non posso che essere d’accordo. Nel mio cuore, però, rimangono semplicemente The Jesus And Mary Chain. Quelli che hanno fatto la storia, e che continueranno a farla.
Credit Foto: Steve Gullick