“Lollapalooza” è un brand importante nel circuito festivaliero mondiale: soprattutto l’edizione nordamericana (che ormai si tiene stabilmente a Chicago da una decina d’anni) ogni anno propone line-up valide e variegate.
Ora, il motivo che mi ha spinto a muovermi verso Berlino per la seconda edizione europea, detto sinceramente e fuori dai denti, era la presenza dei Radiohead tra le band di cartello seppur comunque mi incuriosisse particolarmente osservare come un franchise tipicamente americano potesse inserirsi nella ricchissima platea festivaliera del vecchio continente.
L’idea di fondo mi piaceva molto e mi piaceva la scelta della location: Berlino infatti ha assunto nell’iconografia dei giovani di oggi un’aura quasi mitica, proponendosi come tempio del progresso artistico e multiculturale.
Io, che non sono poi così voglioso di andare controcorrente, sono il primo a subire il fascino della capitale tedesca e sono ben contento di potermi fermare qualche giorno per un paio di concerti.
Ma bando alle introduzione, entriamo nel vivo.
E’ il primo giorno di festival ed io, che non ho le tende in ostello e che di natura sono abbastanza puntuale ed impaziente, entro alle dieci, non appena aprono le porte.
Mi concedo un paio di ore per fare un giro del luogo e qui comincio a notare i primi segni di “immaturità ” della proposta: mancano tutte quelle zone di svago e quelle attrazioni collaterali alla musica che per quanto a me interessino poco riconosco avere un ruolo importante nell’economia della proposta. Anche i palchi sono pochi (ci sono due Main Stage, uno accanto all’altro, che sono attivi alternativamente ed altri due palchi nell’angolo opposto di Treptower Park).
Questa “povertà ” di alternative sarà la conseguenza dell’accalcarsi continuo di persona in ogni luogo ad ogni ora, per tutto il weekend.
Va detto però che dove scarseggia la proposta non mancano i servizi: gli stand per mangiare ed i bagni ricoprono gran parte del parco e l’organizzazione è impeccabile.
Fondamentalmente vago per tutta la mattina finchè mi decido ad andare ad assistere a qualche live ed è qui che noto il punto di debolezza più forte del Festival: la line-up.
Gli apripista, che in genere sono quelli meno conosciuti e meno attesi, sono veramente terribili.
Ho assistito ad una canzone di Lindsey Stirling mentre passavo di fianco al Main Stage 2 e mi sono bastate due virtuosismi vuoti di violino e quattro mosse di danza da cosplayer per farmi accellerare il passo in direzione Alternative Stage in cui, nella mia totale inconsapevolezza, mi attendeva un destino pure peggiore.
C’è infatti questo neozelandese trapiantato a Berlino, tale Graham Candy, che si atteggia da rocker scavato ma, nei fatti, propone un pop-rock scialbo ed inconsistente fatto di urletti e, di nuovo, balletti.
Penso che avrei preferito vivere ignorando l’esistenza della sua musica e che lo show non vale il sudore e l’afa del solo del primo pomeriggio quindi mi siedo all’ombra ed aspetto che il concerto finisca.
Va detto che sono l’unico a pensarla così perchè il palco è pieno di persone (principalmente ragazzine tedesche) che si sbracciano come se fossero ad un concerto di Bon Jovi.
A seguire rimango nei pressi dell’Alternative Stage e, per la prima volta provo sensazioni minimamente piacevoli.
Ci sono questi ragazzi australiani (Jagwar Ma) che calcano molto la mano sulla componente geek e nerd della musica elettronica e propongono un live psichedelico incentrato sui loop e sulla voce cantinelante del frontman.
Niente di eccezionale ma mi seguo tutta l’ora di live con piacere, senza provare ribrezzo per nulla in particolare.
Siamo ormai a metà pomeriggio quando, sempre sullo stesso palco, sale le prima band conosciuta dal sottoscritto: i Kaiser Chiefs, formazione brit-pop di Leeds che ha riscosso parecchio successo nella seconda metà degli anni Zero.
Io, a sedeci anni, ero un loro grande fan e durante il live mi sono accorto di sapere ancora le canzoni di “Employment” e “The Angry Mob” a memoria.
Ma, al netto dell’effetto revival, il set è davvero deboluccio: la resa della band dal vivo è sporcata da tante imprecisioni e Ricky Wilson mi è parso più interessato a fare lo showman che il frontman.
Le nuove canzoni poi (“Parachutes”, “Hole in my Soul”) sono veramente terribili anche se Wilson si impegni a pubblicizzarle come capolavori. Questa è la nostra nuova canzone ed è magica. Se non vi piace significa che non avete un cuore.
Mi concedo una pausa fino all’orario dell’aperitivo in cui mi aspetta il dj-set di Paul Kalkbrenner in un Main Stage 2 stranamente pieno di bambini; ne ho visto più sotto cassa a quel set techno che in sala al cinema per vedere Inside Out, lo scorso autunno.
Considerazioni antropologiche a parte, mi diverto, ogni tanto mi parte il gomito e l’anca in qualche ballo sbilenco ma non decollo mai.
E’ giunto il momento dell’ultima esibizione della serata e mi si pone davanti una scelta: New Order o Kings of Leon.
Io non mi faccio molti problemi dal momento in cui ho adorato “Music Complete” e non mai amato il rock classico della band americana ma trovo che comunque non sia stata una grande mossa, data la scarsa proposta della line-up, sovrapporre i tuoi due nomi di richiamo del primo giorno.
Finalmente mi emoziono: dalla prima nota di “Restless” (accompagnata da un montaggio veramente suggestivo di filmati originali del muro di Berlino) alla chiusura con “Love Will Tear Us Apart”, con sullo sfondo un retorico quanto sincero “Forever Joy Division”.
La cosa che mi colpisce di più è il coinvolgimento e la necessità di sbracciarmi e di ballare che mi trasmette ogni mia canzone, a partire dai classici come “Blue Monday”, “True Faith” e “Crystal”, arrivando alle ultime “Tutti i Frutti” e “Plastic”.
Questo mio coinvolgimento e la natura intrattenente del live mi sorprende ancora di più dal momento in cui poche ore prima assistevo ad il set di un guru della techno tedesca.
Comunque, esco completamente galvanizzato dall’ora e tre quarti di New Order ma abbastanza annoiato, se non addirittura infastidito, da tutto il resto.