Scrivere questa recensione è stato molto difficile.
Il problema, molto banalmente, è individuabile nella mia difficoltà di dare un voto ad un album con picchi emotivi altissimi ma che, contemporaneamente, scorre lento e pesante.
Ma andiamo con ordine: “The Bride” è il quarto LP di Bat For Lashes, un lavoro bello lungo e corposo che ruota attorno ad un concept molto insolito, cioè la morte del promesso sposo, nella via che porta alla chiesa in cui si svolgerà la celebrazione.
La narrazione si snoda tra i brani in maniera lineare partendo dall’idea del futuro proiettato nei sogni della sposa, fino ad arrivare alla tragedia e dalla conseguente naufragio.
Trovo che impostare un album su un tema del genere sia un azzardo dal momento in cui la morte e la perdita assume nell’immaginario dell’ascoltatore tinte ben definite, assolutamente personali e, soprattutto, difficilmente inquadrabili nello spettro di una manciata di minuti.
Da questo punto di visto penso che il punto di riferimento possa essere il miracolo emotivo chiamato “Carrie & Lowell” che porta la firma, la penna, il plettro di Sufjan Stevens.
Nei brani dell’artista del Michigan si avverte rassegnazione, necessità e soprattutto rimpianto ma il tutto è filtrato da una dolcezza coraggiosa e commovente nel suo essere profondamente umana.
Qui la stessa forza empatica che ci porta a incarnare i nostri lutti e le nostre perdite in quelle dell’autrice si avverte a tratti.
Perchè per quanto il clima sia viziato e tremendo, l’atmosfera, soprattutto nei primi brani, è caratterizzata da un’invadente e solenne teatralità e da un estetismo fine a se stesso che appesantisce l’insieme.
Così, nell’incidere claustrofobico e granitico di “In God’s House”, l’attesa disperata e vana della nostra sposa all’altare viene coperta dai vari ghirigori, come un maestoso castello di sabbia sul quale si depositano i ciccioli di sabbia bagnata disordinati di un bambino.
O ancora, la successiva “Honeymooning Alone”, in cui l’intro di chitarra pulp appare come un esercizio decontestualizzato dall’intero lavoro, assolutamente fine a se stesso.
Per arrivare all’apice: “Sunday Love”, suite elettronica, ritmata ed assolutamente stridente con il resto dell’album. Fastidiosa ed esageratamente radio-friendly.
Se c’è qualcosa che però mi porta ad affezionarmi ed a meravigliarmi per questo album è il cambio di marcia che si avverte nella seconda parte del lavoro: le dimostrazioni di talento vengono abbandonate a favore di un etereo e rarefatto gioco di archi, piano e voce.
Questo gioco, per quanto forse sia abusato, funziona sempre quando si vogliono toccare le esperienze e i dolori di ognuno di noi.
Così ascoltando brani come “Close Encounters”, “Land’s End” e “I Will Love Again” si torna veramente a sentirsi parte di qualcosa di enorme ed enormemente condiviso.
Si lascia dietro il grosso sipario di velluto rosso e ci si chiude in un nudo ed austero dolore.
Ed è qui che il mio voto entra in crisi perchè non so bene se queste canzoni siano abbastanza per salvare un album nel complesso è assolutamente indigeribile.
Non arriverò mai ad una conclusione e probabilmente appena la recensione verrà pubblicato questo voto non mi andrà più bene.
Solo che penso che il valore di un’emozione, per quanto possa essere circoscritto a pochi brani, valga ancora tanto e, soprattutto, non sia assolutamente scontato.
Perchè per quanto ci siano troppi, troppi, brani vuoti e trascurabili, ci sono momenti in cui il dolore assume una forma concreta, umana, viva.
Io, conoscendo il talento della Khan, mi aspettavo un lavoro di tutt’altro tenore: lo stesso viaggio introspettivo e profondamente reale di “Carrie & Lowell”.
Piuttosto questa storia viene raccontata solo a sprazzi, in una manciata di brani e purtroppo non credo che la cosa alla lunga potrà bastare.
Credit Foto: Elliot Lee Hazel