Proprio un luogo lontano dal centro, una specie di asteroide o di navicella spaziale – e temporale – pulsante di vita nel buio come il Traffic, si rivela stasera il posto perfetto per realizzare una sorta di cosmogonia, dove dimenticare l’esterno e i suoi tempi e ricrearne di nuovi, seguire solo i propri, quelli interni e quelli della memoria insieme a quelli futuribili.
Questo sembra avvenire in questa serata dal programma ricchissimo, fin da quando i romani A Silent Noise attaccano con “The Shape of Silence”, affascinante già dal titolo, e confermata nella sua esecuzione, che mi ricorda un universo ancora fluido ma in strutturazione. “Zeit Machine” ci immerge in un pulsare rarefatto, poi la tastiera viene dinamicizzata dalla sezione ritmica, infine la chitarra inizia a narrare, compensando e rimarcando allo stesso tempo l’assenza della voce. “The Wake” ha una costruzione più classicamente anni ’80, la voce torna a presenziare, così anche in “Tersicore” che, tra i brani proposti stasera, con la sua oscurità densa è quello che più mi richiama alla mente l’eredità dei Cure. Echi degli Ultravox si affacciano invece dalla più elettronica “Waves in Gale”, da “Kaleidoscope” del 2014, mentre l’eredità krautrock mi sembra particolarmente esaltata nella strumentale “Chromatica”.
Dopo “Lone way”, chiude questa parte della serata la morbida e romantica “Aerius”, consegnando la nostra attenzione così sottilmente catturata ai Date at Midnight, che senza farci attendere troppo salgono sul palco.
Anche loro da Roma, ci fanno ascoltare quasi per intero il nuovo album “Songs to fall and forget”, che abbiamo potuto apprezzare già da qualche mese, nel quale a mio personale parere spiccano, per una composizione che esalta l’apporto dei membri della band, brani come “Cold Modern World”, “Dust”, “Waves”, “Last call”.
L’esplosiva e a tratti scintillante cupezza melodica, talvolta perfino epica (“Running round”), viene portata con una grossa compattezza sul palco, con forte e costante tensione scenica, molto gioco e divertimento nel mentre tengono benissimo le briglie di un’ottima esecuzione da parte di tutti i musicisti.
Convinti e convincenti addensano ulteriormente l’atmosfera che è quindi carica al punto giusto nel momento in cui entrano in scena gli And Also The Trees.
La presenza scenica è forte, in primo luogo quella dei membri storici ma anche dei più giovani. Il palco del Traffic esalta molto la centralità del frontman, la cui voce però, lungi dal dominare sugli altri strumenti, vi è quasi immersa realizzando un paradossale equilibrio nel contrasto tra gli stimoli dei diversi sensi.
Si sa che con la stessa penna si può scrivere la Divina Commedia oppure la lista della spesa. Questo per dire che gli And Also The Trees come strumentazione sono sempre stati piuttosto “nella norma”: voce, chitarra, basso e batteria (a volte l’inserimento di un clarinetto a rendere tutto più arioso). Eppure dal 1979 in poi hanno sempre tirato fuori risultati sorprendentemente scuri, intensi e poetici, tali da essere notati e sostenuti agli esordi dai Cure e da John Peel, e da portare a una produzione di 13 album in studio (incluso il nuovo “Born Into the Waves”), 2 live e 5 raccolte, mantenendo sempre livelli altissimi.
Grandi e creativi in studio quanto dal vivo quindi, e stasera ce lo confermano ancora: “Your Guess” ci dà un inizio cupo e obliquo, già preannunciando il tono predominante della serata; più melodica “Dialogue” con la voce che scivola sugli altri strumenti a ondate ripetute. Alcuni momenti più cadenzati ed anche epici fanno risaltre la voce e le liriche , come “Hawksmoon & the Savage”, cosa che si mantiene anche in episodi dell’ultimo lavoro come “The Sleepers”, forse con un perimetro più minimale e romantico.
Trascina in un picco di esaltazione della partecipazione del pubblico l’aspra “A Room Lives in Lucy”, seguita da “Virus Meadow”, più recitata che cantata, su una musica che è una tela densa di strappi emotivi.
Quando rallentano, come in “Mermen of the Lea”, l’atmosfera anzichè rarefarsi si fa ancora più densa e perfino struggente; ma non ci fanno crogiolare a lungo, con “Shaletown” si riaccelera e tutto si addensa attorno a basso e batteria, mentre la voce si diluisce, pastosa materia connettiva di un meccanismo vitale e mai freddo.
Ennesimo esempio di ricchezza compositiva, “Rive Droite” vede la chitarra come in altri brani sfarfallante quasi come un mandolino, e in più una sezione ritmica da orchestra jazz, e la voce viaggia senza affrettarsi su questi binari da un aplomb insolitamente rassicurante, per quanto accostati in modo originale.
Le parti strumentali si fanno più rarefatte e delicate in “Winter Sea” dal nuovo album,la voce ci invade e conquista anche qui con intensità drammatica, solo più ariosa e dinamica prosegue con “The Skeins of love” da “Angelfish” (1996) album dal quale scelgono anche la successiva “Brother Fear”.
Momenti più barocchi quasi monumentali si raggiungono con “Prince Rupert” e più meditativi con “Angel, Devil Man and Beast”, e infine la conclusione del bis con “Slow Pulse Boy”, ombrosa di sagome dure e taglienti ci marca nell’animo e suggella benissimo la bellezza copiosa e impeccabile di questa serata .