Io vengo, più o meno, dalla riviera romagnola. Dalle nostre parti fino a pochi esisteva un faro nella nebbia chiamato Velvet: un club in cui girava la musica elettronica veramente fica e suonavano i gruppi veramente fichi. In questo insieme di cose fiche c’era una serata che andava per la maggiore ma che a me piaceva poco; si chiamava Retropolis ed era un evento revival in cui, di volta in volta, si rispolveravano tutti i successoni di un preciso decennio del nostro passato più recente. Insomma, all’inizio era pure divertente tra un oddio, ma senti questa ed un nooo, ma questa chi se la ricordava?.
Poi, passava l’effetto sovrastimolante della nostalgia e si tornava a respirare a ritmi umani e ci si accorgeva che la musica era effettivamente poco ballabile.
Con tutto ciò cosa vorrei dire? Pressapoco che “Clear Shot”, terzo album in studio dei Toy, mi ha provocato, più o meno, le stesse sensazioni di quelle lunghe serate sudate. Perchè è un tipo esercizio di stile revival che vive solo del gioco dei rimandi e degli effetti nostalgia e niente più.
Facciamo un passo indietro; parliamo dei Toy e del loro breve, ma intenso, trascorso nell’industria musicale. Parliamo, per esempio del 2012, di come quel mix di dreampop e shoegaze con annesse code abrasive che fanno molto Sonic Youth li avesse trascinati al centro del vorace turbinio del nostro caro hype, tanto da accostarli agli alt-J come next big thing dell’anno.
Parliamo pure del 2013, quando uscii “Join the Dots”, il loro secondo LP, e di come rapidamente l’interesse intorno a loro sembrò essere scemato, nonostante fosse passato appena un anno.
Date queste premesse “Clear Shot”, a parer mio, poteva e doveva essere quel colpo risolutivo che avrebbe permesso al gruppo di assestarsi in una dimensione precisa tra l’hype iniziale e la poca considerazione successiva. Questo colpo di biliardo, in realtà , c’è stato; poi che convinca; è tutto un altro discorso.
L’album infatti prende i tratti identificativi della musica dei Toy (l’aria trasognante, le sterzate sonore e le lunghissime code finali) e li edulcora, riducendo all’osso le stravaganze varie e rimandando alla tipica forma-canzone.
Il guaio di questo nuovo (vecchio) stile particolarmente asciutto è riscontrabile nella conseguente perdita di originalità e di caratterizzazione. Il prodotto finale è un’accozzaglia di rimandi al passato, vuoti e ben confezionati. E se magari tra le sterzate della title-track ci si può trovaread essere piacevolmente sopresi, nello scovare i vari rimandi al passato e nel lasciarsi cullare dall’effetto amarcord, già dal primo giro in cuffia di “Fast Silver”, terzo brano della tracklist, ci verrà da chiederci semplicemente “perchè?”
Perchè c’è ancora bisogno di operazioni revival fine a se stesse? Perchè rientrare in quelli schemi che ormai sono stati affrontati in ogni variante umanamente conosciuta? Non lo so, sinceramente.
Non so perchè si senta il bisogno di creare una raccolta di abc di chitarre shoegaze e tastiere dreampop in cui anche i pochi brani veramente buoni ed interessanti (“I’m Still Believing” “Clouds That Covers the Sun”), vengono completamente oscurati dal piattume generale.
Purtroppo, penso che questo album così anonimo, per quanto ben confezionato, sarà il colpo decisivo che porterà la musica dei Toy verso il totale disinteresse che coinvolge sempre più ex next big thing, con il passare degli anni. Umanamente dispiace molto, e la speranza è sempre quella di sbagliarsi, ma in un mercato musicale così saturo ed insaziabile non si possono permettere due album sbagliati. E questa se ci pensate è una tristissima consapevolezza. Ma è pur sempre il mondo che tutti noi concorriamo a creare.
Purtroppo, se una persona prolissa come me si ritrova a sforzarsi per trovare le parole da associare ad un album, significa che la situazione è veramente piatta e preoccupante . Come una serata al Retropolis in cui dopo qualche ventina di minuti cominci a domandarti quale sia il punto.