Se c’è un nome che ha segnato in modo indelebile gli ascolti di fine anni ’90 dei trentenni di oggi, allora quel nome non può che essere che quello di Moby.
“Go”, “Honey”, “Run On”, “Bodyrock”, “Why does my heart feel so bad?”, “Natural Blues”, “Porcelain”, “Lift me up”, l’elenco delle sue gemme potrebbe essere potenzialmente infinito.
Richard Melville Hall (anche se fà un pò strano chiamarlo con il suo nome di battesimo) è un punto di riferimento per almeno tre generazioni, capace di raccontare con le immagini i suoni e con i suoni le visioni attraverso un sodalizio audiovisivo semplicemente perfetto: come non ricordare la sua pericolosissima danza in prossimità di una macchina in fiamme che poi deflagra nell’anno 1999?
These systems are failing, suo 13mo album, composto da una formazione mista (Moby & The Void Pacific Choir) è prima di tutto un messaggio con il quale il “sempiterno” newyorkese vuole confrontarsi: l’essere contro l’attuale sistema capitalistico-produttivo.
Nel video manifesto che anticipa l’album scopre le carte: “abbiamo costruito grandi città , grandi fabbriche, grandi sistemi, questi crediamo che ci nutrano ma invece uccidono gli animali, la terra e, noi”.
L’uomo moderno è in rotta di collisione con il mondo che lo circonda. La tecnologia avanza velocissima e toglie spazio e lavoro alle persone. L’ambiente è minacciato costantemente dall’inquinamento e dalla deforestazione. Le multinazionali a loro volta espongono i prodotti, uguali l’uno all’altro, negli scaffali dei supermercati in attesa di essere scelti da noi consumatori: l’omologazione è dettata e voluta dall’alto con il solo scopo di allargare la platea di consumo dei gruppi di potere.
Moby presenta il suo nuovo lavoro con un video che racchiude lo spirito dell’intera opera e che si apre con lui che trascina per strada un vecchio microfono come fosse un fardello pesantissimo, scorgiamo una rassegnazione che non lascia ben sperare.
Infatti, la partenza dell’album non promette per nulla bene!, ci si imbatte in “Hey! Hey!” con una chitarra che galleggia tra dance ed electroclash, ruvida e troppo distorta, decisamente fastidiosa, “Break. Doubt” prosegue la scia e sale il disorientamento generale, poi, finalmente, la chitarra si assesta in “I Wait for You” che è il prologo di una virata tra poprock e postpunk nella successiva “Don’t Leave Me”, in cui la voce sporca sembra essergli stata prestata dall’anticristo per eccellenza Marylin Manson.
Un’improvvisa incursione di tamburi scalda l’ambiente in “Erupt & Matter” che introduce al brano di punta dell’album “Are you lost in the world like me?” (video animato da Steve Cutts), dove sonorità 80s ci fanno mettere in discussione il nostro rapporto con la tecnologia: mondo reale offline o virtuale online?
E’ il settimo episodio “A Simple Love” quello che però attira di più la nostra attenzione, brano molto sottovalutato nell’architettura complessiva, qui melodie elettroniche si uniscono a chitarre poprock proprio mentre la parte vocale si libera, si slega da ogni distorsione asfissiante e, finalmente!, recupera gli echi dreampop che tanto avevamo amato nel passato, l’atmosfera poi, ripiomba nell’abbisso cupo e distorsivo di “The Light is Clear in My Eyes” che sprofonda in un rantolo finale garage e postpunk in “And It Hurts”.
L’album non è di quelli che lasciano il segno, è evidente, tuttavia non si può escludere che dietro questa apparente noncuranza ci sia la scelta ben precisa di allontanarsi dalla perfezione, dai canoni dell’estetica tradizionale, come se si volesse esaltare, spettacolarizzare, e, in ultima analisi, rivelare: il “fallimento dei sistemi”; ebbene, se così fosse, saremmo al cospetto di una nuova, l’ennesima, zampata del fuoriclasse MOBY.