#10) COSMO
L’Ultima Festa
[42 Records]
Nel mare magnum del nostro caro hype il naufragare non è poi così dolce. In Italia ci si perde troppo spesso nelle lodi sperticate e in una giudaica attessa del nuovo Messia. Così succede che ogni volta che qualcuno pubblica un singolo ci si ammazza a suon di “finalmente in Italia si sente qualcosa di diverso”. No, non c’è bisogno necessariamente di qualcosa di diverso ma di qualcosa che suoni bene e “L’ultima festa” di Cosmo suona divinamente con il suo electro-pop dalle derive club-friendly.
Quindi, semplicemente, “Le Voci” in cuffia e ritroviamoci tutti a sorridere un po’.
#9) DANNY BROWN
Atrocity Exhibition
[Warp]
Atrocità è la parola adatta per circoscrivere l’ultima fatica di Danny Brown: un rap fluido e dolorisissimo, a tratti cinico e sicuramente sporchissimo. “Atrocity Exhibition” è il figlio prediletto del nostro tempo: caustico, tagliente e contaminato. E’ anche uno degli album hip hop dell’anno ed una delle produzioni più interessanti in senso assoluto; in un’industria discografica che tende sempre di più al sensazionalismo ed alle produzioni assordanti, si ha un bisogno assoluto di album in cui la cassa non si impone ma, piuttosto, sostiene la narrazione che è bollente e dolorosa.
#8) MOTTA
La Fine Dei Vent’anni
[Woodworm]
La parabola di Francesco Motta si snoda attraverso i più classici topos letterari: il musicista che tira a campare suonando per la gente più conosciuta ma che nel cassetto conserva l’album generazionale che lancerà la sua stella.Tutto molto bello, sicuramente se non altro perchè è vero. “La Fine dei Vent’anni” è veramente un album generazionale che mostra uno spaccato dell’Italia e della precarietà emotiva dei ragazzi che stanno a cavall trai venti ed i trenta. Senza andare a pescare tra i singoloni, brani come “Una Maternità ” sono un grimardello che spalanca verso l’interno di ognuno di noi. Aggiungete poi un architrave musicale decisamente variabile e di qualità ed avrete il disco italiano dell’anno.
#7) FRANK OCEAN
Blonde
[Boys Don’t Cry]
Sopravvivere all’hype è un privilegio che pochi si possono permettere. Frank Ocean, addirittura, ci sguazza proprio; cavalca le attese per il seguito di “channel orange” e tira la corda finchè può. E noi lì, muti, a pendere dalle sue labbra. Esce “Blonde” ed è una perla pop. Penso che nessuno come lui oggi riesca a produrre musica pop così di qualità e, contestualmente, così spudoratamente rivolta al grande pubblico. “Blonde” è tutto ma soprattutto è il contrario di tutto: angusto, estremamente reticente ed indecifrabile, nella sua estrema fruibilità .
#6) DAVID BOWIE
Blackstar
[Sony Music]
Ci vuole sincerità , sempre. “Black Star” di David Bowie non ha nulla a che fare con la musica. Piuttosto, è tragedia, eroismo: è vita che diviene narrativa. L’ultimo capitolo che il Duca Bianco ha progettato per la sua storia è spettacolare e straziante, nella sua immanenza. Tutto questo non ha nulla a che fare con la musica e son ben consapevole che avrei inserito “Blackstar” in questa classifica pure se non mi fosse piaciuto. Perchè è una storia che vale la pena di ascoltare in cui la vita trova la propria massima esaltazione e dignità .
#5) JAMES BLAKE
The colour in anything
[Polydor]
Non vi nascondo di nutrire una grandissima ammirazione nei confronti di James Blake: reputo che il suo stile sia uno dei più caratterizzati e caratterizzanti della nostra generazione. L’atmosfera, il loop, il cupo incidere dell’emotività sono elementi che aggrediscono ogni brano della discografia del giovane produttore britannico e che si sublimano nella propria massima forma in “The Colour In Anything” che non è un album che stravolge ma che, piuttosto, consolida. Penso che la cosa che renda così grande la musica di James Blake sia la sue estrema capacità nel coniugare maestosità ed intimità ; ogni passaggio, ogni crescendo è arioso ed imponente ma, contestualmente, colpisce nel più profondo dell’ascoltatore. Semplicemente, uno dei più grandi del nostro tempo.
#4) RADIOHEAD
A moon shaped pool
[XL]
Anche qui, parliamo solo marginalmente di musica. Ogni album dei Radiohead è un evento incredibile e basta. Quando hanno pubblicato “Burn The Witch” sui Social io l’ho condivisa senza neppure averla ascoltata: ero a lezione ma non volevo perdermi l’evento. L’impresa poi sta nello scavare a fondo, per andare oltre il sensazionalismo. Perchè “Burn The Witch” è una delle canzoni di questo anno e se l’avessi ascoltata l’avrei condivisa lo stesso. Perchè “Daydreaming” è la ballata più triste che sentirete nella vostra vita. Perchè forse non è così ma è esattamente quello che si prova ascoltandola. Perchè mi chiedo cosa possiamo ancora dire sui Radiohead senza trovarci a constatare l’ovvio.
#3) CHILDISH GAMBINO
Awaken, My Love!
[Glassnote]
LEGGI LA RECENSIONE
Le classifiche un po’ mi annoiano. Principalmente perchè sono una persona molto prevedibile e quando vedo la lista dell’uscite relative ad un anno so già pressapoco che album entreranno nella top 10, conoscendo i miei gusti. Chiaro, che poi ci sono variazioni ma non ci si muove mai da quei nomi.
Invece, manca una settimana alla deathline ed io mi ascolto “Awaken, My Love!” senza grandi aspettative ed unicamente per l’affetto, idealizzato, che provo per Donald Glover. E ci rimango letteralmente secco. Un album che dà estrema profondità ad un progetto musicale che fino ad un paio di settimane fa sembrava il capriccio di un commediografo, o poco più.
La musica è bella anche perchè ti soddisfa dei bisogni che neppure tu conoscevi; io fino ad un paio di setitmane fa non avevo idea di essere in astinenza di urli funky ed oggi non posso fare a meno.
#2) A TRIBE CALLED QUEST
We Got It From Here “… Thank You 4 Your Service
[Epic]
L’ultimo album (in qualsiasi senso vogliate intendere i termine “ultimo”) degli ATCQ è un canto di speranza, il più bello dell’anno. In una dialettica quasi fiabesca l’album rap forse più atteso dell’anno esce nella settimana più nera per gli Stati Uniti ed, ancora, come è pregorativa degli eroi delle storie fantastiche, Q-Tip e Phif Dawg si prendono tutto il carico di questo contrasto e lo trasformano in qualcosa di accecante. “We got it from Here… Thank You 4 Your Service” è la chiusura di una miriade di archi narrativi: quello degli ATCQ che rispolverano e sublimano il loro flow che è ribelle , intellettuale e sarcastico. Quello di Phif Dawg che ci saluta per sempre in un estremo e gioioso commiato, nella conclusiva “The Donald”. Avete presente quando aspetti il finale di un racconto ed alla fine è esattamente come te lo immaginavi? Ecco.
#1) CAR SEAT HEADREST
Teens Of Denial
[Matador]
“Teens Of Denial” è la vita di molti di noi. “Teens of Denial”, prima di tutto, è la mia vita e di tutti quei ragazzi tra i venti ed i venticinque anni che si sentono fuori posto ed inadeguati e, sopratutto, insoddisfatti. “Teens Of Denial” è come Calcutta che ti dice che molto spesso ci si annoia alle feste e si vorrebbe tornare solo a casa, ma te lo dice molto meglio. Will Toledo ha preso la musica della nostra adolescenza, l’indie-rock, e l’ha ribaltato; perchè, se molti come me si sono approcciati al genere per sentirsi fichi, oggi ci ritroviamo ad assimilare lo stesso linguaggio per giungere a conclusioni opposte. Che a mezzanotte e mezza spesso abbiamo solo voglia di andare a letto ma il letto è lontano kilometri. “Teens Of Denial” è tutto questo: una parabola di fallimenti ed inettidutidine installata sul migliore indie-rock degli ultimi anni. Un album che fa piangere e respirare.