Originario di Bridport sulla costa Sud Ovest dell’Inghilterra, ma artista a Londra, sulle scene da pochi anni (il suo primo EP “Seven Hours” è del settembre 2013), Douglas Dare al suo secondo album ci offre una musica che è una combinazione armoniosa di suoni analogici (piano, percussioni) ed elettronici.
“A forger” si apre con un brano che mostra subito, sotto la confezione abbastanza pop, la profondità di quello che non è solo una bella voce ma anche un bravo autore di testi e un intenso interprete anche al piano: “Doublethink” fa riferimento al rapporto della mente con le tecnologie, (e con la menzogna) richiamandosi al Grande fratello di Orwell.
Una batteria a tratti tribale accompagna un ritornello quasi cantilenante. I diversi strumenti addomesticati dal sintetizzatore si alternano in modo ricco e armonioso ad accompagnare il cantato.
L’accompagnamento analogico si eclissa in “Greenhouse”, per lasciare spazio a basi elettroniche molto soft ed eteree, a tratti quasi elettro-noise. Qualcosa nell’emotività , nelle liriche, nell’atmosfera tra cupa e onirica mi richiama ascolti appassionati degli anni ’90 ormai quali “Past the Mission” di Tory Amos, che era anche quello pop d’autore molto denso e sofisticato e al tempo stesso sanguigno.
Un semplice e intimissimo battito di cuore rappresenta le percussioni in “Oh father” (da cui è tratto un bel video),
intensa e cupa, anche nell’accompagnamento degli altri strumenti, dove predomina la tastiera qui più scura e aggressiva, come una corrente di un fiume notturno, ricca di vita che scorre ma anche densa di ombre insidiose e inquietanti.
In “New York” all’inizio domina la voce con le percussioni, quindi interviene il piano, notevole non tanto per la complessità della trama musicale, quanto per un tocco unico anche nei passaggi più semplici. Il brano ci porta a passeggiare in una New york nebbiosa e sognante, romantica come la Manhattan di Woody Allen, come una città che cambia forma e si modella sui desideri di chi la attraversa.
Misteriosissima è “The Edge”, quasi funerea, la voce sembra arrivare attraversando il tempo, una nenia incastonata nelle pareti di un vecchio rudere, nel vento che lo attraversa, nella polvere che si solleva dalle superfici.
Anche qui è accompagnata delicatamente dal piano, e a mio parere conferma che a risultare più efficaci e di impatto sono proprio i momenti dove questo binomio essenziale non viene annegato in un mare di effetti elettronici.
“Binary” ha un piglio quasi new wave dove la protagonista è la struttura del brano, con stop and go vigorosi, e un accompagnamento molto più denso e energico degli altri, mentre l’intensità del cantato mi ricorda (anche qui un richiamo inaspettato) Michael Stipe dei REM.
Che la sua voce moltiplichi il proprio impatto quando è esaltata dall’accompagnamento di strumenti “caldi”, me lo fa pensare ulteriormente “Stranger”, dove la base di fiati anche se sintetizzata riesce a non suonare fredda, e dove non invadono i cori di sottofondo che in altri brani mi hanno dato un’impressione di eccessiva ridondanza.
In “Venus” la voce si espime ancora più pienamente in melodie oblique e struggenti, fino a ricordarmi David Sylvian, nonostanche anche qui mi sembra che qualche effetto di troppo turbi la limpidezza del rapporto tra il cantato e il pianoforte, tanto che mi è piaciuto di più ascoltarla in alcuni video in versione più essenziale dal vivo.
In “Thinking of him” invece si fa notare una bella chitarra, carnale, quasi rozza, a contrasto con l’astrattezza delle basi elettroniche sembra di vedere il rossore del sangue che scorre sotto il trucco e ne colora il pallore.
“Rex” la traccia di chiusura riesce ad avere quella centralità voce-piano che la rende allo stesso tempo semplice ed imponenente, come un’autorevolezza che non ha bisogno di convincere con mille moine, ma dice il necessario e si fa ascoltare.
Un inatteso rumorismo alla fine stravolge l’ascolto, una valanga di percussioni piomba sulle orecchie e tace di colpo, come una morte, un punto interrogativo, un mistero più essenziale e ancestrale di quanto esprimibile con le sole parole.