#10) LISA HANNIGAN
At Swim
[Play It Again Sam]

He came by in his funeral suit / In an open hearted shade of blue.
Con Aaron Dessner (The National) in cabina di produzione, Lisa Hannigan partorisce il disco più maturo della sua carriera. Voce come sempre angelica ma “invecchiata” il giusto, folk caldo per tempi freddi, toni chiaroscurali ma senza mai cadere troppo nel melodrammatico. Eleganza è la parola d’ordine qui.

#9) HUERCO S.
For Those Of You Who Have (And Also Those Who Have Not)

[Proibito]

Hear me out.

Secondo full-length e secondo centro pieno per Brian Leeds da Kansas City. Dopo l’abstract club di “Colonial Patterns”, Huerco S. si dà  ad un ambient imbastardita di glitch, IDM e una spiccatissima propensione al loop che favorisce un’immersione amniotica in ogni brano. Bravissimo.

#8) TIM HECKER
Love Streams

[4AD]

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øøøøøøøøøøøøøøøø.

Dopo il detour tutto sommato electro-acustico dello splendido “Virgins” (mio disco dell’anno 2013), Tim Hecker torna ai droni. Ci torna per vivisezionarli, manipolarli e incastonarli con voci bianche indecifrabili. Benvenuti nella cattedrale di “Love Streams”: tracce che fanno da vere e proprie stanze tra cui dipanarsi, finestre che sono ingresso per raggi ultravioletti, pavimenti e mura radioattive.

#7) FRANK OCEAN
Blonde
[Boys Don’t Cry]

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Mind over matter is magic / I do magic.

“Channel Orange” aveva mostrato al mondo un ragazzo con il cuore ancora spezzato, uno spleen romantico-decadente e una voce strepitosa per esprimerli. “Blonde” acuisce il tutto, dando ancora più spazio all’ugola di Ocean e mettendo (almeno apparentemente) in secondo piano la strumentazione. Meno beat (eccezion fatta per il primo singolo “Nikes” e “Nights”), meno percussioni, più chitarre acustiche (“Ivy”, la seconda parte di “White Ferrari”), strutture meno ortodosse (ancora “White Ferrari”, “Self Control”), malinconia a palate (una a caso: “Sigfried”). In questo senso, sebbene più di qualcuno abbia storto il naso, la sterzata sonora di “Blonde” funziona e, a voler spingersi oltre, è probabilmente la scelta migliore per effettuare uno scarto rispetto alla produzione soul e r’n’b contemporanea. Il verso You got a roommate, he’ll hear what we do / It’s only awkward if you’re fucking him too, sussurrato quasi fosse una dichiarazione d’amore, è una delle dissonanze cognitive che rendono “Blonde” una sorta di seduta di auto-esaminazione che procede ora a tentoni, ora speditamente, da parte di qualcuno che muore dal desiderio di tenersi i suoi segreti ma il momento dopo rivela più di quanto oseremmo chiedere.

#6) LEONARD COHEN
You want it darker

[Columbia Records]

Hineni hineni / I’m ready, my Lord.

Un po’ come nel caso di Bowie qualche mese prima, in “You Want It Darker” Cohen lascia presagire di essere pronto a tornare al Padreterno (quel I’m ready, my Lord mi provoca sempre brividi lungo la schiena). Ma soprattutto, va ad aggiungere una preziosissima perla al suo catalogo, attingendo da gospel e musica tradizionale ebraica e sugellando il tutto con la sua voce ormai cavernosa ma sempre lenitiva.

#5) SHIRLEY COLLINS
Lodestar
[Domino]

Billy, oh Billy, I’m afraid for my life / I”‘m afraid you mean to murder me and leave me behind.

Settimo album per la regina del revival folk britannico Shirley Collins. I miracoli qui sono due. Primo, che la Collins abbia dato alla luce un nuovo lavoro a 38 anni dal precedente e soprattutto dalla diagnosi peggiore per un artista folk: disfonia. Secondo, che “Lodestar” sia stupefacente per il suo porsi fuori dal tempo. I pezzi sono tutti canti delle tradizioni britanniche, americane e cajun, adornati con arrangiamenti sublimi capaci di catapultare l’ascoltatore nel mezzo delle storie. La voce ieratica della Collins, a 82 anni suonati e con la saggezza di chi ha passato ciò che ha passato, fa il resto.

#4) TWIN HEADED WOLF
The Long Decay
[Self-released]

I am stretched on your grave.

A giugno, dopo essermi laureato e aver lasciato il Nebraska, tanti erano i pensieri che mi affollavano la testa. Arrivato al punto di non riuscire praticamente più ad ascoltare musica, mi sono affidato a Bandcamp per trovare qualcosa a cappella. Possibilmente irlandese, visto che avevo deciso di andar lì due settimane per schiarirmi le idee. Twin Headed Wolf, progetto finora limitato al solo “The Long Decay”, did it for me. Le sorelle Branwen and Julie Kavanagh tessono un velo del suono (vocale) con dieci pezzi, perlopiù canti tradizionali, registrati nel Vigeland Museum di Oslo, un posto che ha un riverbero di 14 secondi. Il risultato è semplicemente magico e, statene certi, tutt’altro che palloso.

#3) NICK CAVE & THE BAD SEEDS
Skeleton tree
[Bad Seed Ltd]

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With my voice I am calling you.

Nel disco sicuramente più doloroso della sua carriera, Nick Cave accentua il lavoro di sottrazione già  intrapreso nel precedente “Push The Sky Away”, rendendo “Skeleton Tree” un nomen omen ridondante tuttavia di pathos. Numerosi i versi memorabili. Ad esempio quel You fell from the sky / Crash landed in a field near the River Adur (stesso luogo dell’incidente che sarebbe costata la vita al giovane Arthur) o la franca ammissione Oh the urge to kill someone was basically overwhelming, giusto per citarne due. Eppure ce n’è un altro che mi ha fatto versare lacrime amare come niente negli ultimi trentasei mesi, forse il più banale letto fuori dal contesto. Quando Cave padre canta – no, implora – I need you, just breathe, riuscire a tenere chiusi i rubinetti è impresa inumana. (Anche per questo, “I Need You” si becca uno skip automatico da queste parti.) “Distant Sky” e la titletrack mirano a acquietare il tumulto, ma c’è poco da fare. La domanda che rivolsi su Facebook dopo il primo ascolto rimane tuttora la stessa: come si sopravvive a “Skeleton Tree”?

#2) BRIAN ENO
The Ship
[Warp]

Dunque non era un ultimo colpo di coda quel “High Life” in collaborazione con Karl Hyde di due anni orsono: Brian Eno ha ancora la capacità  di farmi sobbalzare dalla sedia. In “The Ship”, l’architetto del suono mescola synth celestiali e furiosi e autotune perentorio, con caduta del Titanic e prima guerra mondiale sullo sfondo tematico. Ci aggiunge anche una poesia commovente, prima della ciliegina sulla torta, quella cover di “I’m Set Free” dei Velvet Underground che chiude in serenità  e ottimismo un disco ovviamente cupo e che pare il riflesso di un anno destinato a rimanere nella storia – e non per ragioni simpatiche. Resta solo da sperare che il diradamento delle nubi finale sia premonitorio.

#1) DAVID BOWIE
Blackstar
[Sony Music]

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I’m dying to / Push their backs into the grain / And fool them all again and again.

Qui andrò un po’ sul sentimentale, se non vi dispiace.
Bowie è sempre stato il mio preferito. Avete presente quella sensazione di entrare in cucina col sapore del vostro piatto preferito che vi inebria le narici? Ogni volta che ascolto Bowie, per me è come un ritorno a casa. è quella cosa lì, il porto sicuro, il paio di jeans perfetto, l’abbraccio di mia nonna.

Quella che poi sarebbe diventata la mia ragazza mi aveva annunciato di aver ordinato per me il vinile di “Blackstar” come regalo di compleanno. Il 10 Gennaio, col disco che aveva già  riempito le precedenti due giornate, apro Facebook per leggere i primi auguri ancora nel letto e apprendo. Ora, a distanza di mesi, il funerale celebrativo mediatico non è ancora terminato e chissà  se ciò avverrà  mai. Merito di una carriera sfavillante conclusa con l’ultimo capolavoro (perchè di capolavoro si tratta), in cui David dissemina indizi sulla sua dipartita imminente (stelle che muoiono, teschi disegnati sulle scarpe e quantaltro), finanche chiudendo un cerchio col richiamo dell’armonica di “A New Career In A New Town” in “I Can’t Give Everything Away”. Lo fa attraverso uno scarto ulteriore rispetto alla sua già  memorabile produzione, andando a ripescare quella sua grande passione che è il sassofono (Donny McCaslin sempre sia lodato) a impreziosire pezzi già  sublimi.

Significativo (almeno per il sottoscritto) che anche la relazione che avrei intrapreso di lì a poco fosse essa stessa una blackstar, destinata ad estinguersi una volta ritirato il diploma e messi via i copricapo da cerimonia di laurea. Così come una blackstar sarebbe diventata la mia collezione di vinili, quasi tutti venduti qua e là  per il mondo. “Blackstar”, però, me lo tengo ancora. Un po’ perchè Emily è una brava ragazza, ma soprattutto perchè come fai a dar via l’opera di un genio che rende un’opera d’arte persino la sua morte?