#10) GLASS ANIMALS
How To Be a Human Being
[Harvest Records]
Non tutto funziona in questo secondo album del quartetto di Oxford, ma quando i pezzi si incastrano nel modo giusto emergono soluzioni pop originali, colorate, quasi irresistibili.
#9) BAT FOR LASHES
The Bride
[Parlophone]
Dopo che per 10 anni Natasha Khan aveva ripetutamente fallito a convincermi della sua mistica genialità , stavolta ho dovuto arrendermi. “The Bride” è un album intenso, difficile e riuscito.
#8) BON IVER
22, A Million
[Jagjaguwar]
Come uno di quei piatti destrutturati dove della ricetta originale sono rimasti soltanto gli ingredienti, Justin Vernon fa forse l’unica cosa possibile dopo il successo enorme dei primi due dischi: distrugge il castello di carte e lo butta in mare, lasciando le figure distorte, irriconoscibili, eppure ancora in qualche modo magnifiche.
#7) ANGEL OLSEN
My Woman
[Jagjaguwar]
Già con il precedente “Burn Your Fire for No Witness”, Angel Olsen aveva fatto capire di avere le carte per scrivere dischi memorabili ma è qui che la cosa si palesa, con una sicurezza di scrittura riflessa già nel titolo tutto a lettere maiuscole. Se c’è un futuro del folk americano, passa da lei.
#6) RADIOHEAD
A moon shaped pool
[XL]
Ogni tanto viene la tentazione di darli per finiti, bolliti, smettere di aspettare ogni loro nuova mossa come una nuova venuta di Cristo. Poi i Radiohead tirano fuori un disco come questo, che ha dentro tutto quello per cui li amiamo, e quella capacità di galleggiare sempre una spanna sopra buona parte degli altri dischi usciti quest’anno.
#5) MITSKY
Puberty 2
[Dead Oceans]
Una venticinquenne nata in Giappone che vive a New York, pubblica un disco intitolato “Puberty 2” e prende lo stampino “Best New Music” di Pitchfork. Se non siete ancora scappati, il premio è scoprire un disco indie rock da manuale, costruito sulle chitarre, una voce grave e intensa e alcune melodie indimenticabili.
#4) MINOR VICTORIES
Minor Victories
[PIAS]
Un pezzo di Slowdive, uno di Mogwai, uno di Editors. Rachel Goswell che registra tutte le parti vocali a casa sua nel sud dell’Inghilterra e poi prende la macchina e va in Scozia a fare le prime prove per il tour quando l’album è praticamente già pronto. Un disco che mostra chiari i suoni delle band di origine e li miscela in qualcosa di nuovo e prezioso. Piccole vittorie.
#3) SHURA
Nothing’s Real
[Polydor]
Mainstream, edulcorato, adolescenziale, guilty pleasure, aggiungete pure tutti i dispregiativi che volete. Questo disco di esordio di una ragazza di Manchester con la passione per il pop colorato, gommoso, dai testi che sembrano il diario di una teenager è rimasto in heavy rotation nelle mie cuffie più di qualunque altro. La produzione pressochè perfetta strizza spesso l’occhio alla disco anni “’80. Per Alexandra, nata nel 1991, è soltanto il mezzo per esprimere come ci sente ad avere 20 anni nel 2016.
#2) LAURA GIBSON
Empire Builder
[Barsuk]
Sono passati 50 anni da quando Jack Kerouac attraversava gli Stati Uniti su treni merci lenti e sferraglianti, eppure c’è ancora un treno che a bassa velocità unisce le due coste, si chiama Empire Builder e impiega 46 ore a raggiungere Chicago da Portland. Laura Gibson questo treno l’ha preso, ed è stato il punto di partenza di un viaggio personale ma anche musicale, che ai poeti del beat sarebbe piaciuto molto. Perchè anche nel 2016 bastano una chitarra, un pianoforte e la pazienza di aspettare che la vita ci porti lontano.
#1) SAVAGES
Adore Life
[Matador]
La cosa più incredibile del secondo disco del quartetto londinese è l’energia che trasuda da ogni nota, ogni riff, fino al pugno chiuso della copertina. è un’estetica chiara, potente, che non è solo forma ma anche sostanza. La seconda cosa incredibile è la passione con cui non solo la musica ma anche i testi sprigionano una irrefrenabile passione vitale. “Adore Life” non è un disco che si fa scoprire poco a poco. Anche se sa quando rallentare i ritmi e suonare suadente, rimane un cazzotto in pieno volto che ti stende e ti lascia senza fiato. Colpo da KO.