Il mio duemilasedici è un puzzle composto da risvegli infelici e traumatici, inutile stare qui a elencarvi tutti i lutti e i disastri che ho scoperto svegliandomi al mattino negli ultimi dodici mesi: da Bowie a Umberto Eco, passando per Muhammad Alì e l’elezione di Donald Trump, quest’anno accendere lo smartphone è stato spesso un gesto dalle conseguenze scioccanti.
Ma per Leonard Cohen non ero pronto, forse lo ero meno che per Bowie e se ci pensate bene le due morti hanno molto in comune, a partire dal fatto di essere avvenute a pochi giorni dall’uscita di due album che hanno il sapore della grandiosa uscita di scena, del saluto trionfale che ci lascia l’amaro in bocca; perchè sia “Blackstar” che “You want it darker” sono lavori che ci hanno mostrato due giganti della musica mondiale ancora in pienissima forma e all’altezza del loro glorioso passato.
Il ventuno ottobre mi trovavo in un centro commerciale, avevo qualche dubbio sul fatto di trovare già il nuovo lavoro di Cohen in uscita proprio quel giorno, ma la fortuna mi ha assistito, il commesso stava infatti sistemando le copie di “You want it darker” sugli scaffali precisamente in quel momento (a proposito, trovatemi una copertina più bella e iconica targata duemilasedici), mi avvicino e ne prendo una, lui mi guarda soddisfatto, “Questo è davvero un bel disco” mi dice.
La musica vera fa questo, crea un ponte tra le persone, e immagino quanto conforto abbia recato chiedere un disco di Leonard Cohen a chi tutto il giorno deve sopportare per lavoro Beyoncè, Vasco Rossi e Rovazzi, forse lo stesso che ho provato io una volta in macchina a inserire il dischetto nel lettore.
Le parole della titletrack che aprono il disco sono le le prime che mi sono venute in mente il giorno dell’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti (avvenuta guarda caso il giorno dopo la morte del cantautore canadese, proprio come in una drammatica coincidenza), i versi Se tua è la gloria allora mia deve essere la vergogna suonano un po’ come una presa di posizione di fronte all’infausto risultato elettorale; forse interpretarle in questo modo è un mero esercizio di dietrologia- Cohen non poteva di certo conoscere il risultato del voto-ma in fondo non è proprio il compito degli artisti quello di saper interpretare la realtà e in qualche modo prevederla?
Qualcuno ha realmente voluto che il mondo diventasse più buio, proprio nel momento in cui una delle luci che serviva a farci da guida nell’oscurità si spegneva, prima però che questo accadesse il destino (o forse no?) ha voluto che questa luce brillasse intensamente per un’ultima volta, con la forza, l’eleganza e la poetica intensità che la musica di Leonard Cohen ha sempre saputo regalarci.
Spesso nell’arte il politico è il personale e viceversa, allora in YWID le due dimensioni sovente si soprappongono dando vita ad un flusso di coscienza in cui non di rado i due elementi sono indistinguibili l’uno dall’altro, quello che conta in queste nove composizioni però è l’anima di Cohen stesso, la quale si appresta a confrontarsi in maniera sprezzante e sardonica con l’assoluto, senza nessun timore-in fondo chi è mai stato più zen di lui?-asserendo nella bellissima “On the level” che come ha girato le spalle al demonio così ha fatto anche al cospetto degli angeli.
Ci sono esistenze che ci hanno dato tanto, di fronte alle quali è forse più importante festeggiare il fatto di avere avuto la fortuna di poterle incontrare che piangerle, quella di Cohen è esattamente una di esse, e la cosa migliore che possiamo fare è brindare con lui per l’ultima volta, con in sottofondo questo meraviglioso disco, cantando tutti insieme queste canzoni fino al closing time.
Photo: Rama, CC BY-SA 2.0 FR, via Wikimedia Commons