Il mio avvicinamento alla poetica dei ragazzi di Young Turks è relavitamente risalente nel tempo: ero a Bologna per il compleanno di mia sorella ed ancora non ci vivevo e mi sembrava tutto così nuovo e rumoroso e bello. La festa era finita ed io ero rimasto da solo con i miei teoremi di fisica ed un cerchio enorme intorno alla testa e mi chiedevo perchè all’ultimo anno di Liceo Classico dovessi studiare qualcosa di cui non mi importava veramente nulla. Ad un certo punto un amico di mia sorella attacca l’mp3 alle casse del computer e fa partire questa canzone malinconica e delicata con queste due voci che si completano. Con discrezione mi avvicino e mi approprio di quella scoperta; c’è scritto “Infinity” ed il gruppo si chiama The xx.
Ecco, il primo, il self-titled, non è stato un punto di rottura solo per me ma per l’industria musicale in senso assoluto; massima espressione dell’estetica del nostro tempo ed assoluta ed inarrivabile capacità nel saper riempire i vuoti e la malinconia.
“Coexist”, invece, era un album bellissimo e sfuggente ma non riusciva a toccare l’ascoltatore in quella maniera così tenue e, contestualmente, profonda.
Poi, “In Colour”, con Jamie xx in solitaria a discritcarsi tra uno spettro di sonorità e colori più ampio ed, a tratti, gioioso.
Arriva questo “I See You” e la tentazione è quella di liquidare tutto dicendo che ci troviamo davanti al lavoro meno xx e più Jamie tra i tre del trio: si balla , raga!; Dove sono le chitarre?; Che palle essere felici; ed amenità varie che possiamo leggere in questi giorni sul web.
Invece no, dal secondo ascolto in poi ci si accorge di muoversi in una dimensione completamente diversa, collimante al primo self-titled, pur non portandosi appresso la stessa carica rivoluzionaria. Molto più di quanto fosse “Coexist”, per quanto si concentrasse su sonorità che fossero in continuità .
Ora, entrando nel merito della questione, ci sono parole chiave delle quali ci si può servire per delimitare i limiti di questo LP, senza perderersi nella ridondanza delle analisi track by track.
Il sampling e Jamie; “I See You” sempicemente è un album che si nutre e si appoggia fortemente su sample e campionamenti vari, in una latitudine di sonorità che parte da Hall & Oates ed arriva a Youth di Paolo Sorrentino. La musica degli xx è sempre stata asciutta, elegante, fragile. Mai rumorosa ed, in un certo senso, per quanto i campionamenti siano sempre stati presenti, ha sempre dato l’impressione di essere autosufficiente: un intimo dialogo tra il basso di Olly e la chitarra di Romy. Oggi si affranca completamente quella dimensione da cameretta a favore di una visione della propria poetica più ampia. Il risultato non è confusionario ma, sbilanciandosi, universale (nel senso di pop, quando è un complimento e non una limitazione).
La Voce e Romy: chi parla di un monopolio targato Jamie è disattento o in malafede. La riprova di quanto “I See You” sia differente da “In Colours”, se c’è ne fosse bisogno, può essere ricavata dalla comparazione di “Loud Places” con qualsiasi brano dell’ultimo album degli xx: gli ingredienti fondamentalmente sono quasi gli stessi (base ballereccia e voce di Romy) ma la narrattiva è profondamente conflittuale. Mentre Jamie detonava in gioia, colori e profondità qui invece si torna a respirare il clima tipico degli xx, che si nutre di sfumature e nostalgie. Insomma, in altre parole, non è condivisibile l’assioma secondo cui se questo album è più “danzereccio” allora necessariamente sarà meno introspettivo; al contrario, sono proprio le canzoni più sospinte (come il singolo di lancio “On Hold” o la bellissima “Lips” a dare nuova profondità alla carica nostalgica della band inglese, trasportandoci in una dimensione inedita e contrastante. E’ un percorso più tortuoso e meno immediato rispetto all’empatia primitiva delle vecchie “Infinity” (o delle nuove “Replica” e “Brave for You”, che, oltre ad essere i brani con i testi più maturi e toccanti, risultano i quelli più in continuità con il passato in quanto sonorità ) ma che, alla lunga, può risultare più appagante.
Questo soprattutto grazie ad i contrasti che nascono tra la produzione profondamente ariosa e la voce, e la carica, tragica di Romy che non sta lì semplicemente per metterci la faccia; piuttosto con la consapevolezza di essere parte integrante di quella cosa con la doppia x. Insomma, chi dice che lei (ed Oliver) facciano il compitino dovrebbe riascoltarsi “Loud Places” e scorgere le differenze tra quella voce e questa voce.
Il basso ed Oliver: ecco, se Romy trova proprio il “senso” nel canto, Olly lo trova nel basso; magari come frase è un po’ brutale e sicuramente è un po’ svilente della centralità che ha l’alternanza di voci all’interno della musica degli xx. Che poi, non è neanche una cosa che riguarda completamente la musica in se ma più l’idea che la band ha voluto sempre trasmettere di se: ovvero, un gruppo di amici, legati profondamente ed intimamente, prima di tutto. Ciò che viene trasmesso è prima di tutto questo. Ed è bellissimo ed è uno dei maggior punti di successo degli xx ma parlarne oggi d vuol dire essere otto anni in ritardo.
Quello che invece cercavo di dire con la frase nell’incipit di questo paragrafo è che, mentre la voce di Olly è necessariamente dipendente da quella di Romy (e viceversa, per la logica di cui sopra), il basso trova il proprio totale affrancamento dalla chitarra, svincolandosi da quella logica assolutamente speculare. In altre parole, mentre la chitarra quasi scompare (e quando compare non si sente) il basso trova una nuova dignità ed una grande centralità , soprattutto, ancora, nei brani più distanti dalle sonorità tipiche della band: la cosa si fa lampante nell’opening-track, “Dangerous”, in cui il basso è il vero e proprio architrave nel dialogo sospinto con i fiati ed il beat (o, in misura meno marcata, in “On Hold”), ma il compimento di questa unione, l’amalgama perfetta tra sample e basso, avviene all’interno del secondo singolo, “Say Something Loving”; ecco, questo brano, che ai primi ascolti è parso esageratamente sconclusionato e caotico, cresce ascolto dopo ascolto ed appare il ponte ideale tra le nuove e le vecchie sonorità degli xx, grazie soprattutto al basso di Olly che è il punto di continuità centrale che facilità il passaggio da un mondo all’altro.
In conclusione, fondamentalmente la recensione è tripartita perchè gli xx sono una band tripartita, in cui tre individualità si uniscono per formare qualcosa di profondamente coeso ed uniforme. Se ci pensate non è una cosa assolutamente comune in un’industria in cui viene privilegiata l’idea del front-man od in cui, in ogni caso, esistono buchi neri di interesse all’interno delle band.
La band inglese, al contrario, ha fatto la propria fortuna anche per il modo in cui si è sempre presentata: cioè un gruppo di amici la cui coesione porta a far risaltare i singoli.
Proprio per questo motivo, a mio modo di vedere, non può esistere un discorso intorno agli xx che non ricomprenda tutti e tre.
Da qualche parte ho letto che i tre con questo album hanno compiuto il salto che li porterà al grande pubblico, nel gotha dell’industria pop perchè questo sarebbe l’album più commerciale tra i tre del trio. A mio parere il discorso è assolutamente opposto; gli xx hanno raggiunto il loro apice praticamente subito, pubblicando il loro primo, rivoluzionario, album e cavalcando l’onda con “Coexist”. Insieme a pochi altri (tipo, boh, gli alt-J che vedo molto peggio nel lungo periodo) fanno parte di quell’insieme di gruppi “hipsterini” spendibili pure per il “grande pubblico smaliziato”: non saranno mai Beyoncè ma non sono neanche mai stati Sufjan Stevens. In altre parole, gli xx sono già in cima. Sono sempre stati in cima. Questa svolta più ariosa e più dance-friendly è una mossa tutt’altro che paracula ma un necessario cambio di rotta che, nel breve periodo, potrà essere pure dannoso: fare un album in linea con i primi due infatti sicuramente avrebbe scomodato meno fan di vecchia data ed, ad oggi, probabilmente avrebbe reso più persone “felici”.
Ma quanto possono durare le atmosfere rarefatte di “Crystalised”?
Ancora poco, se consideriamo che i brani più forti dell’album sono quelli meno vicini a quell’idea di musica (le già citate “Dangerous”, “Say Something Loving”, “Lips”, On Hold” e “I Dare You”).
Insomma, si va avanti e necessariamente quando si cambia si finisce per far arrabbiare qualche fan ma il cambiamento è fondamentale per la sopravvivenza di qualsiasi band (pensate per esempio agli Arcade Fire di “Funeral” e quelli di “Reflektor”, giusto per citare una parabola molto simile nel cambio di tonalità ).
Stringendo, il discorso è molto semplice: “I See You” non è un album rivoluzionario in senso assoluto (come è stato il primo self-titled) ma è una svolta molto coraggiosa, nella parabola discografica degli xx. Ed è un album pop come non se ne sentivano da tempo.