à‰ un Venerdà sera piovigginoso, e la stazione della metro di Tufnell Park è semi-deserta, dopo le ore di punta con i pendolari di ritorno a casa dagli uffici. Il weekend è finalmente ai nastri di partenza e non c’è dubbio che Londra viva con animo più disteso, tra gli affollati pub sulla via che mi porta al The Dome. Cammino lentamente, stanco dopo una settimana di lavoro, già pregustando Kevin Devine dal vivo in una delle venues che più preferisco.
Un paio di sorsi di birra ed è giá tempo di avvicinarsi al palco, dove Thomas George, aka The Lion And The Wolf, sta imbracciando l’acustica e iniziando il primo set di supporto. à‰ un ragazzo dai tratti decisamente hipster, nato e cresciuto a Londra, giusto al di lá della via ““ Darmouth Park Hill ““ dove si trova il The Dome e la cosa fa sorridere. Suona con delicatezza, proponendo pezzi più vecchi e i singoli del suo più recente album in studio (“The Cardiac Hotel”). à‰ malinconico, ma la sua empatia sul palco si traduce in un contatto pressochè immediato con i presenti. Laura Stevenson procede sulla falsa riga, giusto mentre The Dome si riempie, con un altra sessione di pezzi in acustico. Chitarra e voce squillante sono i tratti principali, senza mai abbandonare quella connessione a una malcelata tristezza che sembra farla da padrona.
Sono da poco passate le 21.30, quando Kevin Devine, il menestrello di Brooklyn, fa capolino. Niente effetti speciali, è tutto esattamente come me lo immaginavo, a cominciare dalla versione elettroacustica di “Ballgame”, che apre il sipario sulla serata. Kevin canta senza risparmiare le proprie corde vocali, in un quadro che risulta emotivamente potente e fragile nel contempo, un vero marchio di fabbrica del suo cantautorato. L’atmosfera vira improvvisamente, e dopo nemmeno un paio di minuti, il The Dome è tutto per lui.
Le liriche, notoriamente introspettive sono intrise di quella analisi delle sfumature dell’animo umano che hanno fatto di Kevin Devine uno dei porta bandiera dell’indie/emo d’oltre oceano. Non senza quei riferimenti, disseminati qua e là , a temi più politici. “Just Stay” e “She Can See Me” riempiono il bagaglio emotivo della serata proprio un istante prima di vedere la Goddamn Band ““ di supporto all’artista ““ raggiungerlo sul palco. Via allora, ai pezzi più spinti, da “Instigator” a “No Why”, passando per “Off Screen” e “I Could Be With Anyone”.
C’è spazio anche per una toccante versione elettroacustica di “Every Last Famous Word”, che Devine pesca dall’archivio della sua vecchia band, Miracle Of 86. La suona tutta d’un fiato, lasciando sgorgare le proprie emozioni senza freni. La platea è colpita e affondata, mentre Kevin Devine salta e stupra gli ampli con le sue distorsioni. à‰ una commistione di folk, punk, rock “‘n roll ed emocore, assorbiti dalle pareti del locale, in un connubio tra capacità artistica e presenza scenica che hanno fatto e fanno di questo cantautore uno degli esempi più celebri della tradizione indie Americana nell’ultimo ventennio.
Avevo delle aspettative, considerata l’intrinseca bellezza dei lavori di Kevin Devine. Ho avuto la conferma di trovarmi al cospetto di un artista maturo, colmo di talento e con tanto da trasmettere alla schiera di affezionati fans. Il senso compiuto di ciò che, con spontaneità , definiamo indie.