Chiudi gli occhi apri le orecchie e ascolti i primi giri di chitarra: trovi un blues sporco, un blues qualsiasi, ma bastano pochissimi secondi e subentrano le percussioni, i cori dietro ogni angolo, urli liturgici che si ammassano a una malinconia di chitarre che si rincorrono in loop, ed ecco che da una nuvola di sabbia escono ancora i Tinariwen, il gruppo maliano che regala ad ogni occidentale chiuso nel suo cemento, un lungo viaggio tra le steppe di deserti che non si possono immaginare, ma solo sentire.
L’esser combattenti ribelli della rivolta tuareg, blues-man che sussistono nel nomadismo e in un senso della libertà che trapela lungo tutta la loro discografia, li rende unici nella loro approccio alla musica che non può non prescindere da una componente politica.
Il questo “Elwan “il sound del gruppo berbero resta bel delineato sulla scia della discografia, ma qui siamo fuori da una logica occidentale di rinnovamento che l’artista deve compiere per non essere accusato di poca fantasia, tra dune e tribù questi canti ispirano e suscitano sempre un fascino speciale, che si rinnova semplicemente perdurando, e a noi va benissimo così.
Le prime due tracce sono esercizi perfetti dei Tinariwen, l’esotismo non può non sconfinare nella psichedelia di chitarre acide, e “Sastanà qqà m” ne è esempio perfetto. Il blues-rock alterna episodi frenetici a calme malinconie come la sognante “Ittus”. Degne di nota anche “Talyat” e l’incalzante “Assà wt”. “Nà nnuflà y” ci sorprende con la cavernosa incursione completamente riuscita di Mark Lanegan; solo l’ennesimo musicista che ha voluto contribuire e apprezza il mondo dei Tinariwen, una lista che va da Carlos Santana a Herbie Hancock, così giusto per fare due nomi.
Insomma quest’ultimo capitolo dei Tinariwen è sicuramente ottima linfa per chiunque voglia prendersi un po’ di tempo per scappare dalla frenesia delle nostre città , e dalla noia dei nostri gruppetti.