Diciannovesimo disco per i The Necks, leggendaria assemble australiana che, attraverso una produzione ampia e articolata, hanno unito jazz, free jazz, elettronica, ambient, avantgarde e minimalismo. Quasi trent’anni di carriera per la band composta da Lloyd Swanton, Tony Buck e Chris Abrahams e che con “Unfold” provano a cambiare le loro regole. Intanto nel formato; il disco è stato proposto principalmente su vinile, cosa alquanto insolita per i The Necks che hanno sempre preferito per i loro lavori il formato CD che crea per la loro musica una circolarità tra i brani (sempre suite molto lunghe), lasciando l’ascoltatore sempre concentrato su di essa. In questo caso, “Unfold” è diviso in quattro brani distinti e per il gruppo già questo è una bella novità . “Unfold” è poi un lavoro diverso se paragonato all’ultima produzione dei The Necks. Uscito per un’etichetta elettronica come la Mego, la produzione di Stephen O’Malley dei Suun o)) non deve ingannare; non c’e infatti traccia assolutamente di drone music o affini e il disco è una creatura in linea con i suoni che i The Necks hanno sempre proposto, diventando insieme ai neozelandesi Dead C, la band più sperimentale proveniente dall’Oceania anglosassone di sempre.
“Unfold” ha tutte le caratteristiche dei The Necks, con al centro di tutto la batteria sincopata di Tony Buck che si espande, si contrae sferraglia e tintinna. Il piano o l’organo di Abrahams e il basso di Swanton seguo le direttive delle percussioni e si passa spesso da una tempesta sonora ad una calma meditativa. Gli strumenti si intrecciano, disorientando chi ascolta. Il loro swing anche in questa occasione è nebuloso e rievoca post-rock, soul, gospel e gli insegnamenti minimalisti di Karlheinz Stockhausen.
“Unfold” spiazza chi ha amato il precedente “Vertigo”, mancando della versatilità che questo aveva, ed è diverso da altri, tipo il recente “Open” o, se vogliamo andare a ritroso, al bellissimo “Sex” dell’89, secondo me il loro disco migliore. “Unfold” è omogeneo e le quattro tracce che lo compongono si assomigliano forse troppo e in alcuni casi risultano essere troppo dilatate, ma rimane un disco coraggioso che ci svela il lato più grezzo dei The Necks e conserva una certa originalità che, anche a distanza di quasi tre lustri, il trio ha mantenuto.