Matt Lorenz, l’istrionico musicista del Massachusetts che si cela dietro le spoglie di The Suitcase Junket, sembra una controfigura di Salvador Dalì. Baffi e temperamento d’artista, cultore dell’overtone singing (o canto armonico) tipico in varie forme della nostra Sardegna, del popolo di Tuva, del Tibet e di molte altre latitudini. The Suitcase Junket rilegge questa millenaria tradizione in versione americana con l’aiuto di due amplificatori Gibson, di una chitarra recuperata da una discarica, di una tastiera Yamaha giocattolo, di un violino e di un infinito numero di strumenti non convenzionali.
Fusti vuoti, una scarpa da bambino come rullante della batteria, ossa varie per tenere il ritmo, posate, vasellame da cucina e qualunque altra cosa attiri la sua attenzione (alcune si possono vedere orgogliosamente esibite nella foto di copertina di questo quarto album). Ascoltando Matt Lorenz si fa fatica a credere che quel sound distorto, potente, ruvido, primordiale sia creato da un uomo soltanto. Sembra una band fatta e finita, una garage band col fuoco nelle vene e un’enorme collezione di dischi (dalla Band ai White Stripes) in testa. The Suitcase Junket è molte cose: il folk già sperimentato con la sua band Rusty Belle, blues (“Why So Brief”) country (“Seed Your Dreams”) rock (“Evangeline” e “Mountain Of Mind”).
Tante anime che Matt Lorenz riesce a fondere in modo eclettico, divertente. Non ci si annoia di certo passando quaranta minuti in compagnia di The Suitcase Junket, musicista capace di crescere ed ampliare i suoi orizzonti provando a non ripetersi mai nonostante tre album (“Sever And Lift”, “Knock It Down”, “Make Time”) e due EP (“Dying Star” e “Hole In My Pocket”) ormai alle spalle. L’America che Matt Lorenz racconta è quella polverosa degli infiniti viaggi on the road e la famiglia si trova ovunque si và . E’ bello ricordare che esiste ogni tanto e la musica di The Suitcase Junket è un ottimo modo per farlo.