C’è il sole ed è maggio, c’è la pioggia ed è sempre maggio, c’è una nebbia terrificante e tira un’aria che ti stende. Tutte queste sensazioni appartengono al mese di maggio come al disco di (Sandy) Alex G che nella sua carriera ha cambiato parecchi nomi e all’anagrafe è Alexander Giannascoli. Chiamatelo come volete ma Rocket, immagine che inevitabilmente evoca lo spazio, è un disco terreno, country e umano.

Un groviglio che si intreccia in chiari e scuri musicali, in sinth molto cupi e schitarrate aperte, belle e intense. Proprio da lacrimoni. Ogni brano è un gioco che si lancia in melodie diverse, tante piccole avventure si nascondono dentro ogni canzone.

Il suo è un nuovo ritorno ad un vecchio stile di Indie rock puro, pulito che ha caratterizzato cantautori come Ellioth Smith. Non mancano comunque slanci nuovi in un disco che sembra far luce su un nuovo genere di rock psichedelico, adatto ai boschi e alle tundre.

Nella sua ricerca delle possibilità  Alex non ha trovato alcuna limitazione: il merito è nelle sue scelte intelligenti di suoni, ben riusciti e incastrati tra loro.

Giannascoli ha un background estremamente underground e con una forte destinazione all’autoproduzione e tutto questo viene dimostrato da ogni nota in Rocket. Il clima nell’album fa scorrere tutto, permette un continuo fluire mentale di immagini, citazioni, storie e terre.

Ci sono persone a cui va bene tutto, pioggia, sole, caldo e raggi UV a spruzzo: ecco il disco che fa per loro perchè, pur collocandosi in un certo modo di far musica, Alex G riesce con un eclettismo schiacciante a mettere d’accordo tutti, e anche per questo probabilmente è stato uno dei dischi più attesi dell’anno. L’aspettativa è stata dovuta anche al rapporto complesso con la stampa, ma “Rocket” al contrario è un disco prosperoso che fa bene, lascia tutti sazi come in un bel banchetto natalizio, peccato che siamo a maggio, anche se piove, tira vento, viene giù la nebbia: chissà  a Philadelphia, città  dell’artista, che tempo che fa.

Le parole e la musica sono come degli omini di Keith Haring che ci saltano addosso secondo dopo secondo e si intrufolano prepotentemente in ogni azione che dovrete compiere nei prossimi giorni.

Le contraddizioni positive e accattivanti del disco sono tante, ascoltare nel dettaglio Rocket è come bere una bottiglia di Coca Cola nella Persia antica. Basti vedere il risvolto del disco che non si capisce fino a che punto sia biografico, per capire quanto, nonostante l’hype, sia imperscrutabile Alex G.

Che lui non sia mai stato comune l’avevamo capito quando Vogue  ,  The Fader   e Spin   avevano già  ripreso le prime uscite caricate su Bandcamp.

Le sue influenze sono chiaramente riprese dal jazz, country e dal cantautorato indipendente, personalmente non mi interessa tanto da dove venga, culturalmente, perchè “Rocket” è un disco assoluto, destinato a cambiare quest’anno di uscite.