Solitamente bastano pochi secondi per percepire l’aurea che eleva taluni in una dimensione altra, bastano poche movenze, pochi sguardi per notare la loro distanza dagli uomini, la loro differenza siderale nello stare al mondo. E lo stesso accade guardando gli Shellac, vedendo la musica tornare alla catarsi sciamanica che ha liberato i corpi e le anime di intere generazioni, prima ancora che essa fosse banalizzata in prodotto, commercializzata in dischi e falsata in concerti che ben poco hanno a che fare con la sacralità della condivisione.
Per chi non lo sapesse, ahimè, il maestro Steve Albini, chitarra degli Shellac, dalle retrovie dell’indipendenza discografica, restando nel suo pertugio incontaminato, ha influenzato producendo, regalando e perfezionando il suono di alcuni capisaldi e istituzioni a cavallo tra anni 80-90: I due capolavori degli Slint, il monumentale “Surfer Rosa” dei Pixies, i Nirvana di “In Utero”, Pj Harvey, nientemeno che i Fugazi, i Jesus Lizard e ancora una lista infinita di una parte della storia della musica.
Più che musicisti architetti, che con i loro cervellotici ritmi tessono composizioni matematiche, dove centrifugare la propria testa e rimbalzare da una ripresa all’altra, che torna su sè stessa, si amplia, viene distrutta e si ricrea in qualcos’altro; il loro post-hardcore, math-rock chiamatelo come volete, è un perfetto minimalismo ritmico si annulla in tocchi virtuosi ed esplode grezzo verso vortici noise. Ma c’è dell’altro, perchè quei tre uomini sul palco, gli Shellac, come abbiamo detto sono diversi dagli altri gruppi. Gli Shellac, cosa astrusa nel mondo di oggi, creano un dialogo, e non un dialogo qualsiasi con il pubblico. Steve sembra un professore che si dilunga in lezioni di vita e di filosofia, più che scuotere come con la sua chitarra, quando parla vuole spiegare qualcosa, vuole che qualcosa cambi. Quante volte dietro a un buon gruppo che suona e recita la sua parte con un grazie tra una canzone e l’altra, e un è bellissimo essere qui stasera per un po’ di stupidi applausi pescati con l’amo, ci siamo chiesti perchè mai davanti a tanta gente che ti ascolta e ti regala la sua attenzione, non si possa dire qualcosa di sensato, non si possa costruire un vero dialogo.
Ma gli Shellac fanno di più, a più riprese durante il concerto, per il dispiacere di alcuni stolti, chiedono se ci sono domande dal pubblico. Perchè effettivamente quei tre signori in estasi sul palco, con i loro sguardi e le loro parole non possono che far sorgere delle domande. Qualcuno chiede se ci si sta rendendo conto della politicità del loro essere, del loro voler dialogare, del loro voler scuotere. Momenti che nei concerti, e sopratutto nei concerti di questa epoca, non si vedono.
Vengono in mente le parole del maestro Battiato in “Up Patriots to Arms” del lontano 80; lui, altro grande pensatore e avversario del monopolio culturale, dice ormai quasi quaranta anni fa: L’impero della musica è giunto fino a noi pieno di menzogne (“…) e non è colpa mia se esistono spettacoli con fumi e raggi laser, se le pedane sono piene di scemi che si muovono.
E vedere il palco degli Shellac, illuminato da soli fari che mostrano i musicisti deve essere considerato un atto politico; perchè la verità è che gli Shellac semplicemente sono, sono nel fluire del momento, assecondando il tempo, essendo presenti a sè stessi, e non c’è da dispiacersi come la maggior parte del pubblico, ma gioire e urlare un fragoroso hallelujah, quando alla fine del concerto salutano senza uscire e rientrare secondo la teatralità del tempo.
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