Cosa succede quando ti ritrovi dalla parte sbagliata, senza via d’uscita? Quando le gambe sono di gelatina e vorresti scappare ma sai di non poterti muovere, di non riuscire a correre? Piccolo. Vulnerabile. Sottomesso da qualcuno, da qualcosa che è più grande e forte di te. Quanti film, quanti libri, quanti dischi hanno provato a descrivere questa scena? Ora tocca agli Algiers con un secondo album prodotto da Ali Chant e Adrian Utley (Portishead) con l’aiuto di Ben Greenberg (ex The Men) e mixato da Randall Dunn (Sunn O)))) che conferma quanto di buono la band che si divide tra Atlanta, New York e Londra aveva già fatto vedere nell’esordio “Algiers” uscito nel 2015. Franklin James Fisher, Ryan Mahan, Lee Tesche e Matt Tong (ex batterista dei Bloc Party) hanno aperto e apriranno i concerti europei dei Depeche Mode col loro sound cupo, distorto, pieno d’energia che mette insieme mondi e influenze apparentemente inconciliabili. I Public Enemy e i Clash, i Suicide, l’hardcore, le atmosfere di Dominick Fernow versione Prurient / Vatican Shadow e Sam Cooke.
Non a caso gli Algiers hanno scelto di chiamarsi così in riferimento a un film di denuncia (“La Battaglia Di Algeri” di Pontecorvo) che ricostruisce la brutale storia coloniale di un paese (l’Algeria) dove violenza, rivoluzione e religione convivono in perenne conflitto. “The Underside Of Power” è un disco che sta dalla parte degli ultimi, di quelli che il potere lo vedono dalla porta di servizio. Comincia con l’urlo à la James Brown di Franklin James Fisher in una “Walk Like A Panther” tiratissima e si sposta rapidamente lungo i corridoi bui del potere, tra riferimenti storici (le Pantere Nere di Fred Hampton) e letterari (“Mme Rieux” e “Plague Years” sono ispirate a “La Peste” di Camus). Non è musica semplice, lineare, scontata quella degli Algiers. Piena di spigoli, di angoli post punk appena smussati dalla voce di Fisher che profuma di soul e gospel, può passare in un attimo dall’intensità di “Cry Of The Martyrs” a un viscerale grido di vendetta contro la brutalità della polizia americana come “Cleveland” col suo sample di “Peace Be Still” a una “Animals” tutta chitarre veloci, dinamismo e cattiveria.
“A Murmur. A Sign.” è una strana murder ballad piena di spine e nuvole nere che corrono veloci tra le note, “Death March” colpisce duro con brutale riverbero, adrenalina e un testo ispirato a “The Hollow Men” di T.S. Eliot. E proprio nel passaggio da una canzone così diretta e essenziale alla tensione soffusa di uno strumentale come “Bury Me Standing” c’è tutta l’essenza degli Algiers. Una band dalle tante anime, che ama il confronto, sfuggente, difficile da classificare come di rado accade, che guarda al passato ma pensa al futuro. Nata e cresciuta in anni che hanno visto succedersi senza soluzione di continuità le rivolte di Londra e Black Lives Matter, “Dear White People”, Trump e il “Rodney King” di Spike Lee. Cosa succede quando ti ritrovi dalla parte sbagliata, senza una via d’uscita dicevamo. La risposta di Franklin James Fisher è lapidaria in “The Cycle/The Spiral: Time to Go Down Slowly”: “Oh baby I know how to die I don’t know how to forget“. Gli Algiers insomma dimostrano ancora una volta di essere una realtà interessante musicalmente, oltre che politicamente impegnata.